I talebani hanno conquistato l’Afghanistan. Una debacle politica e culturale dell’Occidente (termine quanto mai ambiguo e che è mutato completamente rispetto all’accezione di Oswald Spengler), impegnato nella democratizzazione di Kabul per oltre vent’anni. Anzi, se consideriamo il filo rosso che lega l’invasione sovietica all’evoluzione attuale, possiamo parlare di una campagna fallimentare lunga quarant’anni.

Ma sul piano economico cosa comporta la perdita del Paese asiatico, in particolar modo per l’Italia?

Gli interscambi commerciali Italia-Afghanistan

Secondo i dati dell’Istituto per il commercio estero (Ice), l’interscambio fra Italia e Afghanistan l’anno scorso ha registrato esportazioni per un controvalore di 28,557 milioni e importazioni per 6,030 milioni. I dati erano in netto aumento rispetto al 2019, quando Roma aveva esportato verso Kabul beni e servizi per 12,129 milioni e importato per 3,783 milioni.

Numeri modesti, ovviamente, considerato il contesto. Ma che, è facile prevedere, ora crolleranno a zero.

Sempre prendendo come base le statistiche dell’Ice, nel 2020 l’Italia aveva esportato verso l’Afghanistan soprattutto strumenti e forniture mediche e dentistiche (5,062 milioni), motori, generatori e trasformatori elettrici (2,725 milioni) e altre macchine di impiego generale (2,921 milioni). Le importazioni avevano riguardanto prevalentemente prodotti di colture permanenti (1,9 milioni).

I dati riguardanti il periodo gennaio-maggio di quest’anno già evidenziavano la caduta degli interscambi commerciali a causa dell’avanzata dei talebani. Nei primi cinque mesi le esportazioni italiane verso Kabul sono cadute a 4,905 milioni da 9,630 milioni di un anno prima. Le importazioni sono scese a 2,004 milioni da 3,049 milioni.

Imprese assenti

Anche alla luce dell’interscambio commerciale trascurabile, le aziende italiane non hanno mai avuto una presenza stabile in Afghanistan. Il rimpatrio dei connazionali da parte del ministero degli Esteri ha riguardato gli 895 militari impegnati nella fallimentare missione Nato, il personale diplomatico (i primi 74 sono atterrati a Fiumicino il 16 agosto) e medici.

Emergency – che ha da pochi giorni salutato il fondatore Gino Strada – ha una presenza in Afghanistan che risale al 1999. “Da allora abbiamo curato più di sette milioni di persone: in un Paese di poco più di 30 milioni di abitanti, possiamo dire che una persona su sei ha ricevuto il nostro aiuto”, si legge sul sito dell’organizzazione.

Sempre sul sito di Emergency si può ascoltare la testimonianza di Alberto, medical coordinator, datata 16 agosto: “Sono 115 i pazienti ricoverati in questo momento nel nostro ospedale di Kabul. L’ospedale è pieno, abbiamo aggiunto posti letto extra e anche oggi stiamo provando a ricavare nuovi posti letto per eventuali ulteriori ammissioni di pazienti. Nella notte abbiamo ricevuto anche alcuni pazienti provenienti dall’aeroporto”.

I ministeri della Difesa e degli Esteri italiani rivendicano il fatto che la cooperazione civile e militare nel teatro afghano, sviluppata dal 2005, sia stata costruttiva. Sono stati realizzati 2.290 progetti, per un impegno di spesa globale di oltre 58 milioni di euro. Gli investimenti hanno riguardato l’istruzione (27%), la salute (11%) e poi strade, infrastrutture idriche, forze di sicurezza, agricoltura e allevamento. Sono state costruite o ricostruite un centinaio di scuole, oltre quaranta ospedali, più di ottocento pozzi, oltre trenta edifici di sicurezza. Con le operazioni di rientro concluse sinora sono già stati evacuati 228 afghani, collaboratori del nostro contingente. Dopo la quarantena saranno inseriti nel sistema di accoglienza e integrazione.

Questi risultati concreti – in termini di infrastrutture civili – sono ovviamente messi a rischio dai talebani. Sebbene i vertici degli studenti islamici abbiano assicurato che non consumeranno vendette, annunciato un’amnistia generale e un governo inclusivo.

I progetti sull’energia

Al di là della valenza strategica sul piano militare – piattaforma di collegamento fra Cina, Russia e Iran -, che ne hanno giustificato le mire geopolitiche nel corso della storia, l’Afghanistan avrebbe un ruolo chiave nel passaggio dei mega-collegamenti energetici fra Oceano Indiano, Russia, Cina, Medio Oriente e Caucaso.

La pipeline Turkmenistan–Afghanistan–Pakistan–India (Tapi) è stata progettata, a partire dalla fine del 2015, per trasportare il gas dal Turkmenistan a Pakistan e India. La costruzione della sezione afghana del gasdotto è cominciata nel febbraio 2018.

Lunga 1.848 chilometri e capace di trasportare 33 milioni di metri cubi di gas naturale l’anno, la pipeline ha un costo di circa 10 miliardi di dollari.

Tutte da verificare le intenzioni del governo dei talebani rispetto a questo collegamento. Molto presunibilmente dipenderà dalle capacità di influenza politica del Pakistan.

In precedenza, vent’anni fa, il progetto di una Afghanistan Oil Pipeline per trasportare il greggio del Caspio sino al Pakistan era naufragato dopo l’invasione degli Stati Uniti.

La Russia ha sempre lavorato diplomaticamente e militarmente per impedire la nascita di collegamenti energetici diretti fra le ex repubbliche sovietiche del Caucaso e l’India.

I costi della guerra

La guerra in Afghanistan è costata migliaia di miliardi di dollari. Per gli Stati Uniti per la precisione si tratta di circa 2.300 miliardi di dollari, secondo la stima del Watson Institute della Brown University.

Circa mille miliardi sono stati spesi per le operazioni di combattimento, 530 miliardi per il pagamento degli interessi dei debiti contratti per finanziare l’intervento militare, 443 miliardi è l’incremento del bilancio del dipartimento per la difesa per le attività legate alla guerra e quasi 300 miliardi sono la spesa per la cura dei veterani rientrati negli Stati Uniti. Il contingente americano presente in pianta stabile ha raggiunto il picco nel 2011, con 110mila soldati, a cui vanno aggiunti i contractor privati e il personale di supporto.

Una spesa sproporzionata rispetto al Pil dell’Afghanistan. Secondo la Banca Mondiale, il Pil afghano raggiunge ufficialmente quasi 20 miliardi di dollari correnti. L’Italia, per avere un metro di paragone, vanta un Pil di circa 1.900 miliardi.

L’intervento militare in Afghanistan è stato uno dei più costosi della storia degli Stati Uniti. Secondo l’elaborazione prodotta dal sito howmuch.net (basata su dati del congresso), si tratta del terzo più costoso conflitto di sempre, preceduto solo dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’intervento in Iraq.

Per addestrare un esercito afghano che si è sciolto come neve al sole di fronte all’offensiva dei talebani, gli Stati Uniti hanno speso circa 83 miliardi di dollari per l’esercito e la polizia, tra stipendi (33 miliardi), equipaggiamento (18,3 miliardi), infrastrutture (9,2 miliardi) e addestramento (8,3 miliardi). La stima è del Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, un’agenzia del congressoche ha il compito di valutare in modo indipendente le spese per la ricostruzione americana in Afghanistan.

Se per Washington la campagna afghana è stata un bagno di sangue, in termini di vittime ed economici, altri Paesi hanno gettato nell’impresa, rivelatasi inutile, qualche miliardo di soldi pubblici. Il Regno Unito avrebbe speso dall’inizio del conflitto circa 30 miliardi di dollari e la Germania circa 19 miliardi.

L’Italia – secondo la stima dell’osservatorio sulle spese militari italiane Milex, promosso da attivisti per il disarmo – circa 10 miliardi di dollari, di cui circa un decimo dedicato al sostegno delle forze di sicurezza afghane.

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