Specialisti del mid-cap che amano le aziende complesse. Argos Wityu non ama le cose facili. Si colloca nella fascia dell’industria del private equity meno trafficata perché comporta più lavoro di analisi dei deal, capacità di negoziazione con gli imprenditori e tanto lavoro da fare per strutturare le aziende. L’Italia ha bisogno soprattutto di questa tipologia di operatori, specializzati nelle imprese di medie dimensioni, che necessitano di equity per crescere, managerializzazione, proiezione sui mercati internazionali. Eppure, paradossalmente, sono pochi i fondi che gettano le reti in questo mare pescoso.
Dealflower ha intervistato Jean-Pierre Di Benedetto (JPDB – nella foto di copertina), managing partner di Argos Wityu e numero uno dell’ufficio italiano, per fare il punto sulle strategie del gruppo paneuropeo e sullo stato di salute del private equity.
Qual è la fotografia attuale di Argos Wityu?
JPDB: “La società esiste da trent’anni ed è in Italia da venticinque. Ha avuto una matrice paneuropea da subito: siamo sempre stati presenti in Francia, Italia e Svizzera. E ora abbiamo uffici anche nel Benelux e in Germania. In Italia il team è formato da dieci persone. Io sono a capo dell’ufficio italiano da quindici anni. Abbiamo un’infrastruttura e un footprint sovrapponibile ai big del settore, ma investiamo in aziende di taglia inferiore, con fatturati – per quanto riguarda l’Italia – indicativamente compresi tra 50 e 250 milioni”.
Qual è la vostra strategia di investimento?
JPDB: “Investiamo tramite un unico fondo paneuropeo, senza una suddivisione predefinita per geografie. Facciamo esclusivamente deal di private equity e sempre maggioranze. Il fondo VII aveva raccolto 525 milioni di euro. A inizio 2021 abbiamo effettuato il first closing del fondo VIII, che ha un obiettivo di raccolta di 650 milioni. Attraverso il fondo VIII abbiamo già investito in due aziende. L’investor base è molto internazionale: i commitment sono grosso modo equamente suddivisi fra Nord America, Asia ed Europa. Piu recentemente sono riuscito, a fatica ma con soddisfazione , a coinvolgere anche investitori istituzionali italiani”.
Su quale tipologia di aziende puntate?
JPDB: “Ci piacciono le aziende difficili da capire, le situazioni complesse. Oltre il 75% delle imprese in cui abbiamo investito è al primo giro di private equity, sono deal primari. E oltre il 75% delle exit è avvenuto tramite cessione a un altro fondo, cosiddetti deal secondari. La nostra filosofia è: investire in aziende di qualità ma in situazioni di contesto complicate o di discontinuità positiva. Andiamo a parlare con gli imprenditori, senza paura di sciogliere nodi come contrasti tra azionisti, successione e carve-out di business da gruppi articolati. Siamo un socio di capitali ma anche d’opera, mettiamo le mani dentro le aziende in chiave supportativa”.
Guardate a qualche settore in particolare?
JPDB: “Non siamo specialisti ma conosciamo alcuni settori meglio di altri. Siamo stati in Europa i pionieri nella consulenza (Argos Wityu ha investito in Italia in Bip, acquistata recentemente da Cvc, ndr), un people business che in passato era considerato terreno ostile dai fondi. E conosciamo molto bene l’industria del software e l’IT, settori che ora vedono valutazioni pazzesche. Il tema della digitalizzazione è trasversale rispetto ai settori e lo guardiamo con interesse, cercando, però, di non farci prendere dall’euforia del momento. Sul tavolo ci sono anche dossier riguardanti aziende consumer, industriali e del food“.
Qual è l’atteggiamento degli imprenditori in questo periodo?
JPDB: “Sono consapevoli del momento storico e delle necessità dell’azienda. Il private equity non è più qualcosa di esotico: non dimentichiamo che in Europa il 5% dei lavoratori è in una società controllata da un fondo, in Italia meno ma ci stiamo avvicinando. Gli imprenditori ora ci conoscono meglio e sanno come strutturare e negoziare un deal con noi”.
Quali sono le imprese italiane che attualmente avete in portafoglio?
JPDB: “C’è Talentia, una software-house italo-francese. E poi Fabbri, attiva nel packaging. Moro, che produce formaggi freschi per il canale horeca, industria e grande distribuzione. E Sicura, azienda nata dal carve-out delle attività nel campo della salute e della sicurezza sul lavoro di Rekeep. Sono tre società esemplari della nostra filosofia. Su Fabbri (fine 2017) siamo entrati per crescere per linee esterne (acquisizione di Caveco nel 2019) e stiamo lavorando soprattutto sulla sostenibilità del prodotto. Con Moro (ottobre 2019) abbiamo lavorato sulla managerializzazione. E Sicura (febbraio 2020, in corrispondenza dell’avvio della crisi del Covid) è la classica situazione complessa che ci piace, perché si è trattava di prendere pezzi di business e metterli assieme. Alla presidenza di Sicura, azienda di Vicenza, c’è Paolo Scaroni”.
E’ vero che su Fabbri è in corso un processo di exit?
JPDB: “Ci siamo fatti tentare da qualche view di mercato e abbiamo sondato questa possibilità. Le valutazioni non ci hanno convinto. Andiamo avanti con il piano industriale, convinti che possa crescere ancora”.