Ciò che purtroppo caratterizza spesso l’attività della classe politica italiana è la ricerca – o lo sforzo per il mantenimento – del consenso. Letta così, la decisione di tassare del 40% gli “extraprofitti” delle banche annunciata a sorpresa e nel bel mezzo delle vacanze (sigh) a inizio mese acquisisce un senso. Per la premier Giorgia Meloni l’aumento del costo del denaro e dei finanziamenti per i cittadini è un problema e il suo elettorato (e non solo) mal digerisce quello che viene definito lo “strapotere” delle banche. Già prima di questo annuncio, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva esortato gli istituti di credito ad alzare gli interessi passivi dei conti, in modo da ottenere una seppur minima – e a mio avviso sacrosanta – redistribuzione della ricchezza.

Davanti a questa prova di forza (e per certi versi di coraggio) del governo targato Meloni occorre però essere chiari: l’esecutivo non può permettersi di mantenere una linea dura nei confronti del sistema bancario. E in effetti, dal dibattito che è scaturito a seguito dell’annuncio della tassa, da più parti anche nello stesso governo stanno cercando di smussare il provvedimento.

La cosa curiosa è che si parla di inserire crediti d’imposta che possono andare dal 33% al 100% dell’importo che sarà tassato quando proprio questo governo sembrerebbe voler sforbiciare le tante, tantissime, detrazioni e deduzioni presenti nel nostro ordinamento. Secondo Il Messaggero il viceministro all’Economia Maurizio Leo avrebbe individuato in particolare 227 crediti di imposta che impattano per 36 miliardi di euro, principalmente riferiti a benefici per le imprese, inclusi sgravi per investimenti in Ricerca e Sviluppo e crediti d’imposta riconosciuti alle banche.

Appare però molto improbabile che il governo tocchi le famose Dta (Deferred Tax Asset), cioè quelle imposte il cui pagamento è anticipato e sono legate a una differenza temporale deducibile, che dalla legge di Bilancio 2022 possono essere convertite in credito d’imposta (DTC o Deferred Tax Credit), in caso ad esempio di fusioni o scissioni o conferimenti.

La ragione è una e unica ed è il motivo principale per cui questo governo non potrà tenere realmente una linea dura nei confronti delle banche: Mps. La vendita dello sfortunato istituto di credito, per quanto per qualcuno possa sembrare solo un’opzione, nei fatti non lo è perché è stato preso un accordo in Europa al riguardo. Viene da sé che incentivare l’m&a tra banche anche tramite agevolazioni fiscali è praticamente quasi matematico se Meloni ha davvero intenzione di chiudere la partita. E ciò vale anche adesso che l’istituto di credito senese è stato risanato, ricapitalizzato ed è fresco di bond. D’altronde il consolidamento del settore è promosso e auspicato anche dalle autorità europee e appare difficile che Meloni voglia agire in controtendenza.

Viene da chiedersi, allora, quanto ci sia di concreto nell’annuncio della tassa sugli “extraprofitti” delle banche e quanto invece di propaganda. Quel che è certo è che finché Mps sarà in capo allo Stato (e non è l’unica ragione) per l’esecutivo sarà difficile rivalersi del settore per trovare le risorse e calmierare la fiammata dei prezzi.

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