Osservare oggi i piani industriali delle grandi banche è sempre un esercizio interessante non solo per capire dove sta andando il business ma anche per analizzare se e in che misura l’innovazione e la tecnologia facciano parte del progetto di crescita degli istituti finanziari per eccellenza, tanto essenziali per il tessuto produttivo italiano.

Nel caso di Unicredit, che ieri ha presentato il piano industriale alla comunità finanziaria, la componente digitale sembra avere un peso specifico non indifferente, quantificabile in 2,8 miliardi di euro di investimenti e 2100 assunzioni focalizzate sul data management. L’obiettivo è “diventare una vera banca digitale”, scrive nella nota l’istituto guidato da Andrea Orcel, spinto “dall’utilizzo dei dati in tutto quello che facciamo”. Il piano non esplicita cosa questo significhi nel concreto, una mancanza sostanziale se consideriamo da un lato l’importanza di questo aspetto – nonché l’avanzata del fintech inesorabile tanto quanto quella dei romani nel 200 a.C. nelle ormai famigerate Guerre Puniche – e dall’altro l’elusività del termine “digitale”.

Essere digitali vuol dire tante cose, ormai, e se la seconda banca del paese non è stata in grado – volutamente o meno – di esplicitare tale concetto ciò potrebbe essere anche legato alla mancanza di comprensione del mondo fintech. Tale ambiguità rappresenta per le banche la sfida principale (se non a volte un alibi) della vera transizione tecnologica.

Questa incomprensione, perlomeno in Italia, ha radici culturali profonde legate al tipo di lavoro. Per lavorare in banca, e mi riferisco a quelle posizioni di un certo livello e in certe aree di business, fino a poco tempo fa bastavano un determinato percorso di studi con specifiche competenze (condizione non necessaria, peraltro) e soprattutto una fitta rete di contatti, coltivabili nei modi più svariati. La tecnologia aveva poco spazio in questo processo di carriera e nel lavoro pratico svolto quotidianamente. È per questo, e chi conosce il mondo dei bankers lo sa, che parte dei professionisti del settore (una parte importante, cioè di quelli che prendono le decisioni) si sente al sicuro dall’intrusione del digitale e pertanto annoverano il diritto di potersi estraniare, a livello lavorativo e anche personale, da ciò che di nuovo e rivoluzionario succede intorno a loro. Un élite fuori dal tempo, o meglio per la quale il tempo si è fermato agli anni ’90 o giù di lì, quando i mandati arrivavano grazie al passaparola e i clienti non avevano altra scelta che rivolgersi a una banca per ogni necessità finanziaria.

Non è solo una questione di età, si badi bene. Conosco tanti trenta/quarantenni che non hanno un account su un social media, non leggono i giornali online, non hanno un account Paypal o Satispay, non hanno dimestichezza con il mondo della blockchain o della token economy.

Tale gap culturale è evidente quando questi professionisti sono costretti a ripensare il loro modello di business perché sono apparsi competitor nuovi e inaspettati (da Amazon e Facebook fino a October, per citarne qualcuno) che erodono, in modo costante e irreversibile, quote di mercato.

Qualcuno obietterà che ciò non vale per tutti i tipi di business bancari, pensiamo ad esempio all’advisory. In realtà la tecnologia interviene sempre e non solo in diretta concorrenza: può infatti facilitare il lavoro, nell’m&a è già così, o anche soltanto fungere da volano per la crescita personale e per la gestione del network.

Tra l’altro tutto questo si colloca in un contesto in cui il mondo bancario internazionale sta invece percorrendo quella strada. Banche come Jp Morgan e Goldman Sachs, per fare un esempio, hanno alzato il livello minimo di stipendio ai tecnici e ai software developers che hanno assunto proprio perché ne comprendono l’essenzialità.

Finché in Italia non si compirà questa rivoluzione culturale negli executives di banca e tutti i manager con responsabilità decisionali non comprenderanno a pieno la potenza della tecnologia e il suo impatto, esponenziale, nelle nostre vite, sarà difficile che le scelte di business andranno nella direzione dell’evoluzione tecnologica. E le conseguenze di tale scelta, più o meno consapevole, non sono così imprevedibili.

 

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