Di Valerio Vertua  – Partner di 42LF

 

Gli aspetti tributari italiani delle Big Tech, ovvero di società multinazionali che offrono beni su piattaforme digitali o una pluralità di servizi digitali, non sono sempre di immediata comprensione proprio perché attengono, appunto, a società che non hanno alcuna sede in Italia ma o in altro Paese europeo fiscalmente più vantaggioso oppure sono privi di qualunque presenza (sede o filiale) all’interno della UE.

Per inquadrare la questione, occorre premettere che l’impostazione normativa adottata del nostro Paese prevede l’applicazione del principio della tassazione mondiale (le imprese residenti sono assoggettate a imposta sia per i redditi prodotti in ambito nazionale, sia per quelli prodotti in tutte le altre parti del mondo) alle aziende residenti; e il principio della tassazione su base territoriale per le aziende non residenti fiscalmente in Italia. Per determinare quindi se la società straniera sia soggetta alle imposte sui redditi e all’Irap è fondamentale capire se questa ha o non ha una stabile organizzazione in Italia.

La stabile organizzazione è, secondo la normativa fiscale (vedi l’articolo 162 del Testo unico imposte sui redditi), una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita, in tutto o in parte, la sua attività sul territorio del nostro Stato. In aggiunta a questo l’Agenzia delle Entrate ritiene che per configurare una stabile organizzazione ai fini delle imposte dirette, non sia necessaria la componente “risorse umane”. In altre parole, l’azienda potrebbe non avere personale italiano.

Il caso

In questo quadro normativo, si inserisce un recente episodio che ha coinvolto una nota Big Tech dello streaming video on demand. A questa società la Procura della Repubblica di Milano, di concerto con il Nucleo di Polizia economico-finanziario della Guardia di Finanza di Milano e con la Direzione Regionale Lombardia dell’Agenzia delle Entrate, ha contestato l’esistenza di una stabile organizzazione occulta di società estera, priva di alcuna risorsa umana, caratterizzata unicamente da una struttura tecnologica avanza impiegata nello svolgimento delle proprie attività caratteristiche aziendali condotte sul nostro territorio.

In presenza di una stabile organizzazione la società accertata avrebbe dovuto pagare le imposte in Italia sui redditi ivi prodotti.

La particolarità di questa contestazione, che pare sia il primo caso in assoluto in ambito europeo, è proprio la ricostruzione operata dai verificatori. L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto, infatti, che la società in questione si sia avvalsa di oltre 350 server installati sul territorio nazionale presso diversi data center ubicati, tra l’altro, anche presso i principali operatori telefonici, utilizzati in via esclusiva per fornire i suoi servizi ai cittadini italiani. Proprio questa rete di server costituisce, secondo gli accertatori, una stabile organizzazione da cui discende la legittimità della pretesa tributaria di corrispondere le imposte non versate. Questa ricostruzione (pluralità di server quindi stabile organizzazione) apre degli scenari nuovi che potranno essere applicati anche ad altre aziende Big Tech al fine di sostenere l’esistenza di una stabile organizzazione e quindi il legittimo diritto del nostro Stato al pagamento delle imposte.

Le normative italiana ed europea

Si deve ricordare a questo proposito la Web tax italiana, ovvero l’imposta sui servizi digitali (articolo 1 comma 35 Legge 145/2018), che si applica nella misura del 3% sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi: a) di veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia; b) di messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; c) di trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale.
Sono soggetti passivi le imprese che nell’anno solare precedente, congiuntamente: realizzano ricavi, ovunque nel mondo, singolarmente o a livello di gruppo, non inferiori a 750mila euro; percepiscono, sempre singolarmente o a livello di gruppo, un ammontare di ricavi da servizi digitali in Italia non inferiore a 5,5 milioni.
È interessante notare che nel caso di società estere non residenti, senza stabile organizzazione e senza partita IVA italiana, devono chiedere all’Agenzia delle Entrate un codice fiscale italiano.

A livello europeo il tema della tassazione delle Big Tech è stato affrontato recentemente con la direttiva cosiddetta “DAC7” (Directive Administrative Cooperation Direttiva UE 2021/514), il cui scopo sotteso è quello di sottoporre a tassazione redditi che potenzialmente potrebbe sfuggire. La DAC7 modifica le disposizioni vigenti in tema di scambio di informazioni e di cooperazione amministrativa e aumenta le informazioni che i gestori delle piattaforme commerciali digitali sono obbligati a fornire alle Amministrazioni fiscali dei Paesi membri, teoricamente a partire dal gennaio 2023, data finale per il suo recepimento.

Per completare il quadro, bisogna infine ricordare il percorso che sta avendo la c.d. Web Tax OCSE, frutto appunto di un rapporto dell’OCSE e sottoscritto da oltre 130 Stati, che avrebbe dovuto entrare in vigore 2023 ma che sta subendo alcuni ritardi. Questa Web Tax si basa essenzialmente su due capisaldi: a) il Pillar One finalizzato alla ripartizione degli extraprofitti di gruppo negli Stati in cui i beni o i servizi sono utilizzati o consumati; b) il Pillar Two che prevede una l’aliquota globale minima è stata stabilita al 15% da applicare alle multinazionali che hanno un fatturato superiore ad euro 750 milioni.

 

 

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