Questi i temi trattati durante il Dla Piper Sport Forum che si è tenuto a San Siro, in presenza di alcuni dei più importanti dirigenti delle squadre di Serie A, ma anche di esponenti della finanza e dal ministro dello Sport Andrea Abodi, il quale ha aperto i lavori parlando dell’opportunità di coniugare l’equa competizione con la competitività. Dell’importanza della credibilità di chi scende in campo ma anche di chi investe. E di un’emorragia che parla chiaro: 3 miliardi di perdite ogni anno per il sistema calcio. E debiti di oltre 5 miliardi. Una sostenibilità finanziaria che, numeri alla mano, non permette di andare da nessuna parte come ha anche sottolineato Antonio Tomassini, partner di Dla Piper. Abodi ha indicato la via: “Guardando al modello inglese, i fattori di impatto economico finanziario devono procedere di pari passo a quelli sociali. Più stretta è la connessione, più gli investitori trovano soddisfazione nei risultati sportivi, ma anche un rispetto reciproco che permette di proseguire la collaborazione”. E se la Serie A cresce, porta beneficio alla crescita dell’intero sistema.
E come fa a crescere la serie A?
Il massimo campionato italiano è già cresciuto, tutti i relatori del Forum lo dicono all’unanimità. Vedi le finali giocate nelle coppe europee la scorsa stagione. E vedi anche il fatto che, di riffa e di raffa, la Nazionale potrà difendere il titolo ai prossimi campionati europei. Come alzare l’asticella? Mica per niente il Forum si è tenuto allo stadio di San Siro. Luciano Morello, partner Dla Piper, fornisce alcuni dati che non lasciano spazio ai dubbi: “Nel Regno Unito 16 squadre su 20 hanno lo stadio di proprietà. In Spagna è caratteristica del 50% dei club. In italia invece il 70% degli stadi non è di proprietà”. Chiaro che occorre lavorare in questo senso. E la finanza può dare il suo contributo. In varie forme, dalla gestione dei flussi finanziari, anche (e soprattutto) dall’estero, all’attività di lending, le cartolarizzazioni e i flussi obbligazionari.
Si diceva dello stadio, argomento trattato sia da Beppe Marotta, amministratore delegato dello sport dell’Inter, sia da Giorgio Forlani, Ceo del Milan. Il manager nerazzurro ha definito lo stadio “asset fondamentale per aumentare la redditività. Il Meazza è un contenitore di emozioni e di storia. Ma i tempi attuali necessitano di una struttura in grado di produrre business. Per questo i club stanno tentando di valorizzare l’impianto”. E a proposito dei conti del club, e del rifinanziamento del debito, Marotta ha aggiunto: “Zhang non lascerà mai l’Inter in difficoltà. La parola ‘default’ non è contemplata”.
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Lo stadio di proprietà: un asset immobiliare
Dal canto suo, Giorgio Furlani amministratore delegato del Milan, ha ricostruito il “salvataggio” del club rossonero: “Siamo entrati come finanziatori con il fondo Elliot nel momento in cui l’azionista di riferimento (Yonghong Li NdR) aveva condotto la società al fallimento, o quasi. E così abbiamo dovuto fare un grosso turnaround, incentrando questa maxioperazione su quattro colonne fondamentali: il successo sportivo, perché se sei il Milan non c’è progetto che non abbia come base il successo sportivo. E la squadra veniva da cinque anni senza Champions e da 11 anni senza scudetto. La sostenibilità dei giocatori nel rapporto tra performance e costi. Il terzo sostegno è rappresentato dagli investimenti nello sport e nel business, anche nella parte commreciale. Infine la quarta colonna, non ultima per importanza: il nuovo stadio. Abbiamo studiato molti disegni cercando di sfruttare gli spazi del Meazza. Ora però stiamo puntando decisamente su San Donato”.
Gli fa eco Carlo Lotito, in collegamento dal Senato e presidente della Lazio, che ha parlato del progetto stadio Flaminio citando la sostenibilità del sistema Germania: “Il Bayern Monaco riceve centinaia di milioni di euro dai diritti televisivi. Poi il resto dei ricavi arriva dal merchandising legato allo stadio. E vi lascio immaginare le cifre spaventose che la società guadagna con la birra. In Italia gli stadi sono eccessivamente legati al passato. Avevo proposto un impianto avveniristico, la stazione ferroviaria che arriva dentro lo stadio, un approdo anche via mare. Più in generale il sistema è ancora troppo radicato su un concetto che vede al centro del club una persona sola, o una società, e non a un gruppo dove a prendere decisioni sono i manager”.
Da dove nasce il potenziale del calcio per i private equity
Urbano Cairo, presidente del Torino e di Rcs, parte dallo stadio per allargare gli orizzonti: “Il potenziale del calcio è altissimo. Private equity e imprenditori guardano con attenzione a questo asset innanzitutto perché i prezzi delle squadre italiane sono molto più bassi rispetto all’estero, ma anche al potenziale stesso che offre. Lo stadio di proprietà in grado di generare altissimi introiti è solo uno dei tanti motivi. C’è il tema dei diritti televisivi. Ci sono Paesi che hanno affrontato la pirateria in maniera drastica. In Italia la perdita stimata è di un milione di euro al giorno. Pensate a cosa potremmo fare con questi 350 milioni di rosso all’anno, se consideriamo che la Premier League vale 4 miliardi mentre la serie A se va bene porta a casa un miliardo di euro. Poi certo, ci sono i costi, a partire dai prezzi dei giocatori e dell’assistenza dei procuratori, che è il motivo per cui sempre i club inglesi, nonostante un sistema che funziona, si indebitano (vedi il caso Everton NdR). La Nba al contrario è riuscita a gestire il tutto in maniera intelligente, sia sul piano del tetto degli stipendi, sia sulla redistribuzione”.
Urbano Cairo prese il Torino dal fallimento, non si iscrisse al campionato del 2005. E così dovette muoversi partendo da zero. Che poi è quello che ha fatto Andrea Raddrizzani con la Sampdoria. Anche se ha precisato davanti ai microfoni: “Non ho acquistato la Samp. Faccio parte del gruppo che si impegna nella ristrutturazione del club” ha detto in quella che di fatto è stata la sua prima uscita pubblica dopo l’operazione del salvataggio blucerchiato.
Nella speranza che frutti quanto l’operazione Leeds: “Fatturava 34 milioni quando abbiamo rilevato il club inglese. Siamo riusciti quasi a decuplicare i numeri, arrivando a 240 milioni prima di venderla. Certo, 110 milioni provenivano dai diritti tv. Che per intenderci, è molto più di quanto incassa la squadra campione d’Italia”. Diventa così scontato chiedere al manager cosa l’abbia spinto a investire in Italia: “Mi piacciono le sfide, come quella di salvare un patrimonio del calcio come la Sampdoria. La Premier League offre più possbilità a livello di ricavi ma inevitabilmente anche costi più alti. L’Italia offre più professionalità, e forse anche più talento nello scouting dei giocatori”.
La parola ai fondi: Carlyle
Nicola Falcinelli, Carlyle’s deputy head of european private credit, ha offerto la view di un private equity che ha già investito nel calcio, sostenendo l’Atalanta: “Abbiamo investito in un club italiano perché eravamo interessati ai contenuti che la Lega Calcio offre: il brand, l’academy che in Italia è molto sottovalutata, lo stadio, i diritti tv, la rosa stessa dei calciatori. Noi facciamo private credit, approccio di investimento molto simile a private equity con rischi minori e un focus sul downside: cerchiamo di capire che tipo di protezione possiamo avere da un club. Se riusciamo ad avere asset importanti e affidabili, allora riusciamo a essere ‘comfortable’ nel fornire denaro e investire nel questo club. In Italia le valutazioni sono più basse rispetto all’estero anche perché al momento sono i ricavi stessi a essere più bassi, così come anche la profittabilità”.
Per Il futuro? C’è ottimismo? “Americani, cinesi, in generale gli stranieri si auspicano una sorta di accelerazione della crescita. Di sicuro le aspettative per ora non sono state rispettate, guardiamo ad esempio al nuovo ciclo dei diritti tv, che di fatto non ha registrato alcun aumento di valore. Il calcio italiano rimane di interesse per gli investitori ma deve compararsi anche con le altre leghe. E questa comparazione non ci mette certo in ottima luce. Anche per questo guardiamo anche ad altri sport. Questi asset non sono correlati con gli aspetti macroeconomici, sono resilienti rispetto a fattori impattanti come l’inflazione. Per noi conta il cashflow generation e un outlook positivo. Solo su queste basi ci muoviamo di conseguenza”.
Interessante infine l’importanza che Falcinelli ha dato all’asset dell’academy: “Un investimento che fa paura, se vogliamo. Perché la duration e le tempistiche necessarrie per ricevere frutti sono molto lunghe. Solo gli investitori lungimiranti con ottima di investimento molto lunga hanno la capacità di investire in questo tipo di asset. I benefici arrivano nella voce dei ricavi del player trading. E quindi nel momento in cui si riesce a far crescere i giocatori sin dalle giovanili fino alle leghe professionistiche. La loro rivendita genera valori importanti come ritorno su quell’investimento”.