Dalla possibilità di avere una policy di carriera alias (cioè, la possibilità per le persone transgender di non essere chiamati con il proprio nome biologico) a sviluppare ambienti all’interno delle aziende in cui si riesca a non perpetrare delle discriminazioni. Questo è quello che manca ancora nella maggior parte delle aziende per essere più inclusive. Non si tratta, infatti, sono di abbracciare i temi Esg, ma metterli davvero in pratica.
Se ne è parlato all’evento, tenutosi a Milano, Diversity, inclusion e contesto normativo – Diritti civili e barriere amministrative, organizzato dal team pari opportunità di Andersen e moderato dal giornalista Federico Chiara, culture editor di Vogue Italia.
Partendo dall’esperienza del lungometraggio Nel mio nome (tra i produttori c’è anche l’attore americano Elliot Page), che è una narrazione corale sull’esperienza di transizione da femmina a maschio di quattro amici, il regista e scrittore Nicolò Bassetti ha raccontato le difficoltà che lui stesso ha affrontato nella realizzazione del documentario, come convincere alcune aziende riprese che essere associate a questi temi non è una pubblicità negativa.
Le barriere non sono solo culturali, ma anche burocratiche, dal semplice fatto che non venga fatta formazione all’interno delle aziende, ha sottolineato il consulente aziendale su gender diversity Matteo Bassetti: “Per cercare prospettive diverse è necessario, infatti, adottare misure più inclusive”.
Punta a porsi come un’azienda inclusiva ed equa Ikea, lo hanno sottolineato Chiara Buonvino, equality, diversity & inclusion leader di Ikea Italia, e Simona Aleo, people & culture manager di Ikea Brescia. “Come azienda che ha il privilegio di entrare nelle case di milioni di italiani ogni giorno, sentiamo la responsabilità di promuovere un reale cambiamento culturale, a partire dalle persone che rendono ogni giorno Ikea un posto migliore, i nostri co-worker – ha spiegato Aleo”.
Un lavoro che discrimina
Secondo i dati Istat 2020-2021 il 12,6% delle persone che si dichiarano omosessuali o bisessuali non si è presentato a un colloquio di lavoro o non ha fatto domanda poiché pensava che l’ambiente lavorativo sarebbe stato ostile al suo orientamento sessuale. “Anche se hanno maggiori opportunità di mercato quelle imprese che cercano fornitori ‘sostenibili'”, ha sottolineato Andrea De Vecchi, ceo di Andersen.
Il 26% delle persone che si dichiarano omosessuali o bisessuali afferma che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della vita lavorativa in almeno uno di questi ambiti: retribuzione, avanzamenti di carriera, riconoscimento delle capacità professionali. Riguardo alla discriminazione in fase di accesso al lavoro, una persona su tre dichiara di aver vissuto tale esperienza; invece, con riferimento allo svolgimento del proprio lavoro, il 34,5% dei dipendenti o ex dipendenti sostiene di aver subito almeno un evento di discriminazione.
Infine, come riportano i dati di Istat 2020-2021, il 17,4% di chi ha subito discriminazione nell’attuale/ultimo lavoro dipendente ha intrapreso una qualche azione (legale, di conciliazione sindacale, ne ha parlato con i responsabili, ha chiesto che venissero presi provvedimenti nei confronti dei responsabili, ha cambiato lavoro/ufficio/mansioni o altro tipo di azione).