Il costo del rischio aumenterà, ma c’è margine che non si avveri lo scenario peggiore. A dicembre 2019 il tasso di default del complesso delle imprese italiane era del 4,45%, il migliore degli ultimi 16 anni. Negli ultimi mesi, però, il dato è peggiorato, anche se poi si è sempre rivelato migliore rispetto alle previsioni stilate sei mesi prima, come riporta Cerved Rating Agency durante l’incontro organizzato da Anthilia, Capitali pubblici e privati: nuovo ecosistema per le pmi.
A novembre 2022 il tasso di default delle imprese italiane ha raggiunto il 5,68% e per i prossimi mesi Cerved – su un campione rappresentativo del tessuto industriale/commerciale nazionale che ha preso in considerazione oltre 18mila soggetti valutati con rating di credito e un milione di data point – ha identificato tre scenari: il migliore sul 5,91%, quello intermedio del 6,29% e quello negativo del 7,97%. Tutto dipenderà da come si evolverà la situazione geopolitica e quanto si aggraverà l’aumento del costo delle materie prima.
Più green meno default, ma non solo
Oltre che a ribadire che le imprese più sostenibili hanno meno rischiosità finanziaria – trend che dall’analisi è confermato sia nel comparto delle piccolo e medie imprese, sia in quello delle grandi imprese – l’amministratore delegato di Cerved Rating Agency Fabrizio Negri (nella foto), ha sottolineato che sono state identificate più di 300 imprese italiane, di cui una buona parte nel centro Italia, che, seppur caratterizzate da un’elevata leva finanziaria, potrebbero emettere debito per circa 7,8 miliardi di euro e che attraverso tali emissioni potrebbero andare a finanziarie le spese in conto capitale e mantenenersi in fascia investment grade o a un livello immediatamente vicino.
Cerved, infatti, ha isolato un perimetro di imprese target “leveraged” per cui l’indebitamento addizionale consentirebbe di rimanere in fascia investment grade (Ig) anche grazie al mantenimento di adeguati livelli di marginalità nell’ultimo triennio e ha notato che queste imprese fatturano complessivamente 28 miliardi euro, impiegano circa 53mila persone, sono equamente distribuite sul territorio italiano e hanno una probabilità di default (Pd) media dell’1,81%.
Considerando le imprese per cui un indebitamento addizionale consentirebbe di rimanere in fascia investment grade (Ig) o ad un livello immediatamente vicino (S-Ig), sono emerse proprio queste 300 imprese con un potenziale di emissione da non sottovalutare.
“Il quadro generale della rischiosità delle imprese italiane è stato fortemente condizionato dagli accadimenti straordinari degli ultimi 36 mesi – ha spiegato Negri -. Nonostante un profilo generale di rischiosità ancora superiore al 2019 vi sono degli ambiti di potenziale interesse per gli investitori anche nel comparto crossover cioè quelle imprese che sono tra l’investiment e il sub investment grade. In questo comparto stimiamo un potenziale di nuovo debito di oltre 7,8 miliardi”.
Circa l’80% di questo potenziale poi è riconducibile ad imprese del settore manufatturiero, seguite da commercio al dettaglio e all’ingrosso e servizi. A livello geografico le imprese del perimetro analizzato, localizzate nel centro Italia, possano arrivare a emettere fino a 4,4 miliardi di euro di titoli di debito; mentre le imprese del nord ovest sui 1,8 miliardi di euro, quelle del nord est sui 1,4 miliardi di euro) e sud e isole sui 90 milioni di euro.
La tendenza degli ultimi anni è l’aumento del livello di indebitamento delle imprese italiane anche a seguito del ricorso alla finanza emergenziale. Tale incremento della leva finanziaria è tendenzialmente correlato a una diminuzione del merito creditizio con conseguente aumento della probabilità di default media (Pd). Dai dati emerge che le imprese con rapporto Pfn/Ebitda superiore a 6x presentano una probabilità di default doppia rispetto a quelle con Pfn/Ebitda minore di 2 (il 8,38% rispetto al 4,24%).
Come procede il settore manifatturiero
Nonostante i rallentamenti in atto, il settore manifatturiero chiuderà l’anno con un aumento dell’attività del 2.1%. Alessandra Benedini, principal di Prometeia ha sottolineato infatti che la spinta inflativa, infatti, permetterà al fatturato di crescere a ritmi superiori al 25% (+53% sul 2020) per il secondo anno consecutivo.
Gli incrementi saranno diffusi a livello settoriale, con poche eccezioni: automotive, ancora alle prese con criticità dell’offerta e con un mercato interno ancora in rosso, metallurgia e intermedi chimici che scontano, oltre a politiche di approvvigionamento più caute, il confronto con un 2021 record. Se la moda corre, grazie al recupero del turismo e della socialità sia in Italia che all’estero sarà uno dei più dinamici a consuntivo 2022 (pur nell’ipotesi di una frenata piuttosto intensa nella seconda parte dell’anno) insieme a farmaceutica e prodotti da costruzioni, debole invece è l’alimentare, che sta scontando l’impattodelle crescenti tensioni inflazionistiche e del ritorno alla socialità. Meccanica, elettrotecnica e prodotti in metallo invece saranno sostenuti da una dinamica degli investimenti nel complesso ancora vivace.
Le buone performance dell’industria riflettono poi il rafforzamento competitivo delle imprese. La dimensione media delle imprese manifatturiere italiane è aumentata, così come la quota di produzione realizzata dalle aziende con fatturato superiore a 50 milioni di euro (passata dal 45 al 51% fra il 2008 e il 2020). Nell’ultimo decennio si sono rafforzati la patrimonializzazione, gli investimenti e anche la propensione al brevetto si sta allineando alla media europea (+4.4% contro +4.8% la crescita dello stock di brevetti concessi), grazie al forte aumento delle tecnologie green e di alcuni comparti high tech (Ict e tecnologie medicali in primis).
Ciò ha portato a un guadagno di quote sui mercati mondiali e ha migliorato la propensione all’export (dal 36% del 2010 al 47% del 2021 la quota di export su fatturato) e il saldo commerciale, salito oltre i 100 miliardi di euro nel 2021 (+70 miliardi in dieci anni).