Sarebbe dovuto entrare in vigore il primo settembre di quest’anno ma un decreto legge del 24 agosto scorso del ministero della Giustizia ha rinviato nuovamente l’efficacia del Codice della crisi d’impresa al 31 dicembre 2023. Si tratta dell’ennesimo rinvio, dopo che la sua entrata in vigore era già stata spostata, nella primavera del 2020,  al 1° settembre 2021 dal Decreto Liquidità.

Per quanto, nella situazione in cui ci troviamo, il rinvio in sé sia comprensibile, questa proroga allunga ulteriormente i tempi per una risoluzione di uno dei nodi più complessi del nostro Paese: il fallimento.

Il rinvio del Codice è infatti legato a una serie di motivi. Innanzitutto, come ha spiegato a Dealflower Ugo Molinari, partner dello studio legale Molinari Agostinelli la situazione pandemica attuale per le imprese è già destabilizzante di per sé, inserire un nuovo codice – che nelle intenzioni dovrebbe impattare sensibilmente sulla gestione della crisi d’impresa – potrebbe peggiorare la situazione.

Poi c’è il recepimento della Direttiva europea numero 1023/19 sui quadri di ristrutturazione preventiva, che l’Italia deve ancora mettere in pratica e che potrebbe scontrarsi con alcuni punti del codice. Infine, ha spiegato il ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia, il rinvio al 31 dicembre 2023 del Titolo II sulle misure di allerta è stato deciso “per sperimentare l’efficacia della composizione negoziata e rivedere i meccanismi di allerta contenuti nel codice della crisi d’impresa”.

Tutte giustificazioni valide, si intende, ma un altro rinvio non può essere accettabile e il Paese non può permettersi di perdere altro tempo. Non fosse altro perché la pandemia rischia di provocare un’ecatombe: secondo l’Istat nel suo Rapporto 2021 sulla competitività dei settori produttivi circa il 45% delle aziende è strutturalmente a rischio e se esposte a una crisi esogena, subirebbero conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività”. Di fatto, quasi la metà delle aziende italiane un’altra crisi non sarebbe in grado di sostenerla. Il che significa che già adesso sono sull’orlo del precipizio e hanno bisogno degli strumenti, finanziari e normativi, per evitare di cadere giù.

Il 31 dicembre 2023 deve essere dunque una data spartiacque tra la situazione attuale e un quadro normativo che metta innanzitutto (e soprattutto) l’azienda e i consulenti nelle condizioni di prevenirla, la crisi, e non solo di gestirla.

Il nuovo codice va in questa direzione e introduce sistemi di allerta in grado di cogliere i segnali anticipatori della crisi attraverso ad esempio il monitoraggio di appositi indici che diano evidenza della sostenibilità o meno dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale o meno per l’esercizio in corso.

La continuità aziendale però non può essere perseguita a tutti i cosi e non può essere l’unico fine. La prevenzione deve essere la strada da seguire anche perché il rischio, concreto, è quello di trovarsi di fronte a una valanga di situazioni di crisi che poi, per mancanza di norme chiare e di investitori disposti a sostenere le aziende in bilico, saranno più difficili da maneggiare.

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