Pragmatismo o ideologia. Ambizioni e realtà. Blocchi geopolitici e sviluppo tecnologico. Per frenare le emissioni di Co2, il cui ritmo di crescita non accenna a diminuire, serve l’unità di intenti.

Eppure, la governance globale, riunita fino a ieri 12 dicembre a Dubai per la Cop28, deve fare i conti con la realtà. Perché l’anno 2023 è senza dubbio quello degli interrogativi. Resta alta la coscienza collettiva verso l’emergenza climatica. I Grandi del mondo sono consapevoli che bisogna spingere verso le energie verdi per evitare la catastrofe di un aumento di oltre due gradi della temperatura media globale. Ma il quadro geopolitico ed economico sta condizionando enormemente gli investimenti. E la pressione di due grandi produttori di greggio, come Russia ed Arabia Saudita, frena la volontà di decarbonizzare le economie.

L’alto livello dei tassi di interesse, deciso dalle banche centrali per contrastare l’alta inflazione che penalizza fortemente il ceto medio, cambia radicalmente le condizioni di finanziamento.

Le criticità dell’eolico

Il comparto delle rinnovabili sta diventando maturo. E dunque la concorrenza del settore abbassa i margini per le aziende. Persistono oggettive difficoltà di immagazzinamento dei materiali e si osserva un’inefficienza generale del sistema nel mettere a terra i progetti. Per questo l’impatto non può che trasferirsi sulla finanza, che sconta in anticipo i cambiamenti. Non sorprendono i guai finanziari di alcuni grandi aziende dell’eolico come Siemens Energy e Orsted.

La capacità produttiva dell’eolico è diminuita quest’anno del 19% a livello globale. Anche lo sviluppo dell’offshore sta riscontrando delle difficoltà sia in Europa che negli Stati Uniti. Diverse società d’investimento, come Rothschild, sostengono che il futuro dell’energia del vento sia a rischio per i costi fuori mercato.

Per l’offshore si sommano anche problemi tecnologici, con alcune soluzioni come il floating che ancora non sono mature. Sta rallentando anche la produzione di veicoli elettrici. Due big come Ford e General Motors stanno riducendo l’immissione sul mercato di nuovi veicoli. I costi delle materie prime sono elevati – cresciuti notevolmente e in fretta – dunque i margini finiscono sotto pressione.

Il resto lo fa l’inflazione così alta, che impedisce alle famiglie di acquistare vetture non ancora alla portata come punto prezzo.

 

Il quadro geopolitico

Anche i governi, inglese e canadese in primis, stanno rallentando sulla decarbonizzazione. La linea di faglia dei conflitti militari tra i due blocchi amplifica la diffidenza. Il rinverdirsi del focolaio in Terra Santa, dopo la guerra di trincea in Ucraina, segnala che il mondo rischia di non prendere di petto, come dovrebbe, la sfida che tutti abbiamo davanti. Le minacce economiche si intersecano con quelle geopolitiche e ambientali. E si trasferiscono sui mercati finanziari. Così cominciano ad attribuire prezzi più ragionevoli ai titoli green.

Le avvisaglie sui mercati

Uno degli indici più liquidi, l’Exchange Traded Fund (ETF), è l’iShares Global Clean Energy, un fondo gestito da BlackRock.  Replica l’andamento di un paniere di circa 100 aziende del settore delle energie rinnovabili. Le quotazioni sono in caduta del 34% da inizio anno.

Lo stesso indice azionario americano più importante, S&P 500, ha fatto segnare una crescita del 16%, in distonia evidente col precedente. Anche le emissioni di obbligazioni private legate alle energie pulite hanno subito una flessione. Nel 2021 erano state emesse sul mercato bond per 608 miliardi, nel 2022 si è scesi a 541 miliardi di dollari e il 2023 chiuderà attorno ai 510 miliardi. Le società di idrocarburi, al contrario, hanno fatto segnare nel 2022 e 2023 profitti da record. La grande liquidità a disposizione dei colossi del petrolio ha finito per favorire le fusioni. Chevron ed Exxon hanno comprato concorrenti per decine di miliardi di dollari.

 

L’alto livello dei tassi

Pesa il costo del denaro: molti investimenti sono stati decisi in tempi in cui i tassi di interesse erano vicini allo zero. Il caso della francese Engie è emblematico: sul mercato Usa è stata costretta ad aumentare i prezzi del 50% nella vendita di energia per sopperire alle nuove condizioni. E poi le strozzature sulle catene di fornitura. Alcuni materiali indispensabili alla transizione ecologica sono aumentati di prezzo, ma si fa anche fatica a reperirli.

Peccato che qui da qui al 2030 bisognerebbe apportare aggiustamenti che riducano almeno di un terzo le emissioni. La Cina produce da sola il 33% di Co2, il 12,5% gli Stati Uniti. Pechino ha cominciato a fare sul serio, però così controlla a monte l’intera filiera delle rinnovabili, una leva geopolitica che preoccupa il blocco Usa-Europa.

Secondo le stime del think tank finlandese Crea, le rinnovabili installate dalla Repubblica Popolare genereranno nel 2023 oltre 400 Terawattora l’anno, più del fabbisogno della Francia, con 200 Gigawatt di solo solare, il doppio della potenza operativa negli Stati Uniti.

Il Sud globale

 L’altro tema urgente viene segnalato dall’ultimo report dell’Ispi. Riguarda gli investimenti nei Paesi in via di sviluppo: servono entro il 2030 circa 2.400 miliardi l’anno per decarbonizzare queste economie. Soldi che dipendono anche dalle scelte di organismi internazionali come la Banca Mondiale.

Sebbene i finanziamenti per il clima forniti ai Paesi emergenti siano aumentati nel 2021 fino a raggiungere 89,6 miliardi di dollari, non sono ancora riusciti a soddisfare l’impegno di 100 miliardi all’anno. I deficit di bilancio in tutto il mondo sono aumentati notevolmente durante la pandemia, poiché i governi hanno agito come “assicuratori di ultima istanza”. Nel 2020 i deficit pubblici sono stati in media superiori al 20% del PIL nelle economie avanzate. Di conseguenza, il debito pubblico ha raggiunto nuovi massimi in molti Paesi, con una media superiore al 100% nelle economie avanzate.

 

La transizione come spesa pubblica

Per questo la domanda diventa una: i governi possono permettersi questo tipo di transizione? L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti ha impegnato 391 trilioni di dollari in un decennio. Rispettare questi impegni in un contesto di spazio fiscale limitato e di preoccupazioni sulla sostenibilità del debito pubblico sarà impegnativo. E il 2024, non dimentichiamo, è l’anno delle presidenziali Usa con la probabile sfida tra Trump e Biden.  Da chi la spunterà dipenderà la capacità (e le ambizioni) di riduzione delle emissioni degli Stati Uniti.

La preoccupazione per la crisi climatica non dovrebbe essere un tema polarizzante ma negli Usa – e non solo – lo è. Lo scorso anno solo il 22% degli americani che si reputano di destra considerava il cambiamento climatico una grave minaccia. Il divario fra destra e sinistra è molto più ampio di quanto non sia in altri Paesi. Un esempio è il caso dei Repubblicani del Texas, che cercano attivamente di mettere i bastoni fra le ruote alla forte crescita che il settore delle energie rinnovabili sta avendo nel loro stesso Stato.

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