Tra il costo del gas e la mancanza di materie prime, l’invasione russa in Ucraina sta avendo molte conseguenze sull’economia italiana. L’export del nostro Paese ne ha risentito, ma allo stesso tempo sono venuti meno anche i prodotti che solitamente importiamo da Russia e Ucraina. Di conseguenza, in diversi settori le aziende hanno chiuso “momentaneamente” la produzione: dall’agricoltura con lo stabilimento dell’azienda di fertilizzanti norvegese Yara a Ferrara alla ceramica con le aziende di Sassuolo, Panaria e Fincibec, che hanno dovuto spegnere i forni.

Fertilizzanti

Dal grano al mais, dalle patate ai pomodori, all’Italia manca circa il 40% del fabbisogno di concimi per le campagne primaverili, riporta Consorzi Agrari d’Italia. Il nostro Paese importa, infatti, il 70% dei concimi minerali utilizzati nei campi, con l’Egitto che da solo rappresenta poco meno del 50% delle importazioni. Seguono poi Ucraina (10-15%), Algeria, Libia, Turchia, Marocco, Bielorussia e Russia. La guerra in Ucraina non ha fermato solo le esportazioni di Kiev, ma ha bloccato l’export di tutti i Paesi produttori di fertilizzanti.

Il caro energia e i prezzi alle stelle delle materie prime hanno portato alla chiusura temporanea dello stabilimento dell’azienda di fertilizzanti norvegese Yara a Ferrara, il più importante centro di produzione in Italia.

Grano e mais

Le riserve non mancano, il problema è il prezzo. Questo perché Russia e Ucraina non sono i principali fornitori di grano dell’Italia. Secondo i dati Istat analizzati dall’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea), l’anno scorso il nostro Paese ha importato poco più di 96mila tonnellate di grano tenero da Mosca e circa 122mila da Kyiv: messi insieme, fanno il 3,2% di tutto il grano tenero importato nel 2021.

La percentuale scende se si guarda al commercio del grano duro. L’anno scorso l’Italia ne ha importato zero tonnellate dall’Ucraina e oltre 57mila tonnellate dalla Russia, il 2,5% sul totale. Mettendo tutto insieme, il peso dei due Paesi in guerra sulle importazioni italiane è di solo il 4%.

A livello globale, invece, sono più influenti. Russia e Ucraina, infatti, rispettivamente rappresentano il 21% e il 10% di tutte le esportazioni di grano tenero, che tra il 2018 e il 2020 hanno avuto un valore complessivo di quasi 178 milioni di tonnellate (cifra 15 volte superiore all’export globale del grano duro). I mercati principali del grano tenero russo e ucraino non sono quelli europei o americani, ma Egitto, Tunisia, Turchia e alcuni Paesi asiatici e africani. Influenzate dall’aumento del prezzo in altri Paesi, quindi, le quotazioni del grano tenero in Italia hanno sfondato il tetto dei 400 euro alla tonnellata la settimana scorsa.

Diverso invece il discorso per il mais, che il nostro Paese importa più della metà del suo fabbisogno. Secondo i dati Istat sul commercio estero, nel 2021 l’Italia ha acquistato olio di girasole dall’Ucraina per un valore di circa 260 milioni di euro, che si sommano agli oltre 140 milioni per il mais destinato all’alimentazione degli animali. L’Ucraina, infatti, è il secondo fornitore di mais dell’Italia dopo l’Ungheria: insieme rappresentano circa la metà delle importazioni totali, per un totale di 2,25 miliardi di chili nel 2021.

Ceramica

L’industria della ceramica si era ripresa bene dal periodo pandemico e nel 2021 aveva messo a segno una crescita del fatturato di circa il 12% rispetto al 2019, superando 6,2 miliardi di cui 5 miliardi dalle esportazioni. Il rialzo del costo del metano, ulteriormente esasperato con il conflitto bellico, e la scarsità di materie prime, però, ha portato alla “temporanea chiusura di diverse industrie dell’ambito: Panaria Group, come anche Ricchetti, Gruppo Fincibec e alle reggiane Cotto Petrus, Antica Ceramica Rubiera, Saxa Gres e Serenissima Casalgrande.

Dall’Ucraina, infatti, arrivava il 25% delle materie prime usate nel settore della ceramica in Italia e la maggior parte delle argille, indispensabili per la produzione delle piastrelle. Argilla e caolino erano estratti soprattutto nelle cave del Donbass, un territorio che​ sulla carta fa parte dell’Ucraina ma che dal 2014 è occupato da separatisti filorussi.

Carta

L’Italia ogni anno produce tra i 9,5 e i 10 milioni di tonnellate di carta e in Europa, con 1,5 milioni di tonnellate, siamo i primi produttori di carta igienica. Il 20% della produzione di carte grafiche infatti è italiano. Solo la produzione ha un fatturato complessivo annuo di 8 miliardi di euro, con circa 20 mila addetti, ma tutta la filiera con 18mila imprese, tra produttori e trasformatori, vale circa 22 miliardi di euro, pari all’1,3% del Pil.

La crisi energetica, come previsto, ha colpito anche questo settore e molti stabilimenti produttori di carta, compresi carta igienica, rotoli e tovaglioli si sono fermati o hanno ridotto l’attività e altri ancora sono pronti a farlo. Tra le aziende costrette a fermare temporaneamente alcuni stabilimenti c’è il gruppo Pro-Gest con sede a Treviso.

Calzature

Dopo una ripresa da 9,5 miliardi nel 2021 (il 21% in più rispetto al 2020, ma ancora sotto del 6% rispetto il 2019), le aziende produttive calzaturiere italiane erano pronte a fare un salto positivo nel 2022. La guerra in Ucraina però ha ridotto il commercio, soprattutto quello con i ricchi interessati alle calzature di lusso. Secondo il primo studio sul settore dell’Area studi di Mediobanca, la Russia è il decimo mercato di sbocco per le aziende italiane. L’Ucraina, invece, si ferma allo 0,4% delle esportazioni (è al 26esimo posto), ma ha un ruolo nella produzione con due stabilimenti di gruppi italiani, entrambi veneti e attivi nella calzature sportive, nella zona sud occidentale del Paese finora meno toccati dalla guerra: uno è Tecnica Group, noto per il marchio Moon Boot, l’altro Mondeox.

Centro focale del settore calzaturificio, sono le Marche. Solo l’export della regione verso la Russia, infatti, vale 273,8 milioni di euro di cui 111,9 in calzature, tessile e abbigliamento, ha riportato Cna Marche. In particolare, a risentirne di più è il distretto di Fermo per il quale il mercato russo e ucraino rappresentano l’80% del fatturato. Il sistema incide per il 40,5% di tutto l’export marchigiano verso la Russia, di cui il 33% in calzature.

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