L’ultima in ordine di tempo è stata quella sulle azioni Reno De Medici, fra i primi produttori di cartoncino in Italia, da parte di Apollo. Ma già da qualche tempo il listino è stato oggetto di delisting, specialmente tramite offerte pubbliche di acquisto, di gioielli quotati più o meno di recente. I casi Ima, Guala Closure, Zanetti, Astm e Credito Valtellinese sono alcuni esempi delle 14 opa di quest’anno. Guardando indietro, la Consob ha rilevato che dal 2007 al 2019 sono state promosse 231 operazioni (opa, ops e opas). Consob sottolinea che nel 2007 il 62,5% delle offerte era finalizzato al delisting, percentuale salita al 90% nel 2019.
L’intensità del fenomeno, soprattutto in questi primi sei mesi dell’anno, ha portato i più a chiedersi le ragioni dietro questa la situazione. La spiegazione più diffusa è l’abbondanza di risorse soprattutto in mano ai private equity, come evidenziato dal ceo di Borsa Italiana Raffaele Jerusalmi al Sole24Ore.
Lo stesso ha riferito a Repubblica di non essere preoccupato dai delisting ma che “il punto è che il mercato dei capitali privato, guidato dai private equity, è diventato enorme e ormai fanno operazioni che un tempo si facevano solo in Borsa”. E se private equity amplieranno la loro quota di mercato, si chiede lil ceo, “come cambieranno i mercati? In particolare quelli europei e Piazza Affari, di dimensioni più ridotte, come si assesteranno?”.
Le domande sono legittime, ma il punto è un altro. La crescita del comparto private equity è fisiologica di un settore che sta maturando. Il problema sorge quando si considerano i delisting in relazione ai nuovi ingressi, cioè le matricole: dal 2012 a oggi i delisting sono stati 110, le quotazioni 55, considerando solo il mercato regolamentato.
Tutto questo lascia spazio ad alcune riflessioni.
La prima è che la Borsa non è per sempre. È un passaggio, una vetrina, un trampolino dal quale ogni azienda, a prescindere dalla dimensione, può poi saltare verso altri percorsi di crescita. Percorsi che possono includere il private equity, un’aggregazione e in buona sostanza la vita oltre il listino. Può sembrare un discorso scontato, in realtà partire da questo assunto può essere utile per guardare questa pioggia di delisting senza scandalizzarsi.
La seconda è relativa proprio all’assenza di un virtuoso circolo di aziende che dal privato passa al pubblico per poi tornare al privato. Nella natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. In Borsa tante aziende se ne vanno, poche ne arrivano. E il problema non è del private equity ma di una serie di questioni – anche regolamentari e culturali – che ostacolano le quotazioni.
In questo momento di transizione e di cambiamento del mercato diventa quindi ancora più importante cercare di capire dove il passaggio si inceppa e quindi agire per semplificare, sostenere e velocizzare le quotazioni, eliminando i passaggi burocratici inutili e potenziando gli aspetti più virtuosi. L’Aim, è sotto gli occhi di tutti, sta attirando molte più pmi di quanto non facesse in passato, segno che non tutto è perduto. E da lì si dovrebbe partire per attivare quel meccanismo di porte girevoli e dare spazio alle aziende meritevoli.