Passano gli anni e anche le giornate dedicate alle donne, l’8 marzo, ed è ancora necessario e importante ricordare che sì, non siamo più negli anni 50 e le donne lavoratrici sono una normalità, ma no, non abbiamo ancora davvero raggiunto una parità salariale, professionale e culturale. A confermarlo sono i dati.
Dopo la perdita di 376mila posti di lavoro femminili nel 2020, in Italia il numero di donne al lavoro è tornato ai livelli precrisi. Secondo i dati provvisori di Istat a gennaio 2023 le donne occupate sono 9,87 milioni (più dei 9,7 milioni nel 2019) e il tasso di occupazione femminile medio (in riferimento ai primi nove mesi del 2022) è del 50,8%: cioè, lavora una donna su due. Raggiunge il 51,9% in base ai dati provvisori di gennaio.
Una magra consolazione, soprattutto se si guardano poi nei dettagli i ruoli che queste ricoprono. In Italia, infatti, nel 2023 le donne ai vertici sono solo il 24% (in piccolo aumento rispetto al 20% nel 2022) e il 34% nei ruoli nel senior management (30% nel 2022), come rileva il rapporto annuale Women in business di Grant Thornton. Allo stesso tempo, risulta in forte calo la percentuale di aziende senza presenze femminili nel senior management, che attualmente si assesta al 7% (-5% rispetto allo scorso anno), portando così l’Italia a posizionarsi virtuosamente ai primi posti dell’Eurozona.
Delle differenze poi, sono presenti tra i consigli di amministrazione delle società quotate e non. La ragione? La legge Golfo-Mosca che dal 2011 prevede che il genere sottorappresentato sia almeno il 40% nei Cda delle società quotate. Ciò lascia piena libertà alle non quotate dove, invece, le percentuali femminili sono ben misere. La stessa misura, però, che negli anni ha dato ottimi risultati all’Italia al punto tale che in diversi settori la presenza femminile nei Cda delle quotate ha superato quella maschile, è stata imposta a livello europeo alla fine dello scorso anno dal Parlamento europeo.
Ma non solo. Lo studio dell’Osservatorio per l’imprenditorialità femminile di Unioncamere, ha confermato anche un calo delle imprese a guida femminile, nonostante allo stesso tempo cresca la presenza di attività gestite da donne in settori a maggiori contenuto d’innovazione e conoscenza. Nel 2022 si contano, infatti, seimila imprese femminili in meno rispetto al 2021. Tuttavia, sono duemila in più le imprese femminili nelle attività professionali, scientifiche e tecniche (portando la percentuale di presenza femminile al 19,71%), quasi 1.500 in più quelle attive in ambito immobiliare (il 2,25% in più) e circa mille in più nei servizi di comunicazione e nelle attività finanziarie (il 1,21% in più con un tasso di presenza femminile che arriva quasi al 22%).
I cambiamenti sono lenti (e in questo caso notevolmente lenti), eppure garantire il miglioramento dell’uguaglianza di genere aggiungerebbe fino al 9,6% al Pil pro capite dell’Ue (o tremila miliardi di euro) entro il 2050, come rileva l’Istituto europeo per le politiche di genere.
A incidere in Italia, però, sono ancora retribuzioni femminili più basse, una cultura familiare che pesa solo sulle spalle della donna e una discriminazione di genere che influenza la possibilità di scegliere dirigenti donne, ma anche le donne stesse di intraprendere o meno una carriera tradizionalmente “maschile”.
Per questo è importante dare voce a chi contribuisce al cambiamento. Chi prova a far conciliare lavoro e famiglia. Chi fa carriera arrivando a ruoli che una donna non aveva mai sognato. E chi ama il proprio lavoro e lotta per lo stesso stipendio di un uomo.
Carriera e famiglia, conciliarsi è possibile per una donna?
“Ritengo che oggi più di ieri sia possibile per una donna conciliare la carriera professionale e il proprio ruolo nella famiglia, ma questo ha un costo di tipo emotivo, perché è difficile sentirsi sempre efficaci in entrambi i ruoli e di tipo economico, perché per poter affrontare la vita professionale con ‘lucidità’ è necessario dotarsi di un’organizzazione di supporto per la gestione delle incombenze familiari che sia solida ed efficiente. Detto ciò, la cosa più importante è perdonarsi se non si riesce ad essere sempre “al 100%”contemporaneamente su entrambi i fronti”, spiega Nadia Vavassori, head of Open pension scheme di Amundi Sgr.
D’accordo è anche Claudia Barone, senior associate dello studio legale Lca che sottolinea: “Il carico di lavoro di una donna/mamma è decisamente sfidante. Ci deve essere quindi una grande forza di volontà per portare avanti tutti i task. Serve poi accerchiarsi di persone che condividono questa visione, non solo a casa ma anche sul posto di lavo
Sul fronte casa, avere un compagno che vive in modo paritetico la genitorialità abbandonando il retaggio per cui il ruolo della donna nella famiglia è primario e condivide le ambizioni professionali della partner, permette di ri-bilanciare le responsabilità in famiglia, consentendo alla donna di potersi concentrare anche sulla carriera senza il senso di colpa dell’aver abbandonato la famiglia. Sul fronte professionale, lavorare in un ambiente in cui è chiaro il concetto per cui una donna non può essere svantaggiata per il solo fatto che ‘subisce’ in prima persona l’evento maternità, permette di non trasformare questo evento in un bollino nero che macchia la carriera della donna o comunque la rallenta”.
Se già nella pratica – tra organizzazione familiare e rispetto professionale – è oggi giorno fattibile, anche se riserva un po’ di ‘fortuna’, sul fronte culturale siamo ancora indietro. “Il vero ostacolo (che le donne affrontano, ndr.) è rappresentato dalla mentalità ancora radicata nella società odierna. Occorre mirare alla reale parità con gli uomini all’interno del nucleo familiare affinché le donne abbiano le medesime opportunità all’esterno”, aggiunge Elisabetta Sordini, partner di Vivani & Associati.
Oltre a “belle, brave e buone”, quali competenze sono richieste alle donne?
“Nell’ambito professionale in cui lavoro, l’impronta maschile è ancora parecchio radicata. Le posizioni apicali, sia all’interno dei grossi studi legali, sia nell’organizzazione dei clienti (principalmente società), sono ancora ricoperte per il 90% da uomini. I managing partner e i soci degli studi legali così come le figure manageriali della maggior parte delle realtà imprenditoriali italiane, ma anche internazionali, sono ancora principalmente figure maschili. Non dico che non ci siano eccezioni ma, appunto, si tratta di eccezioni.
In questo contesto si percepisce ancora l’idea per cui visto che l’uomo ‘è arrivato in alto’ è più bravo. Per superare questa visione, alla donna viene richiesto di essere, a parità di ruolo, più smart, più intraprendente e più skillata di un pari grado di sesso maschile. In parole povere, la donna deve fare uno sforzo in più per guadagnarsi la fiducia dell’interlocutore e per dimostrare di essere all’altezza e professionalmente capace di tutelare gli interessi del cliente al pari di un collega di sesso maschile. Una volta superato questo step, una volta guadagnato il rispetto e la fiducia però è tutto in discesa”, risponde Barone.
Concorde è anche Rossella Bergonzi, responsabile U.O. finanza di Alba Leasing che aggiunge anche che: “Sono convinta che, a parità di qualità e condizioni, venga scelto ancora il candidato uomo e che alla donna generalmente si chieda qualcosa in più. Ciò si basa sul pregiudizio in base al quale una donna possa essere meno competitiva o meno affidabile sul lavoro perché ‘distratta’ dalle incombenze famigliari. Per questo credo che alle donne tocchi dimostrare qualcosa in più dell’uomo per ottenere un posto di lavoro, una promozione o una posizione di responsabilità.
Essere donna significa essere un po’ più umili, meno aggressive. Questo da un lato ci frena perché non è nelle corde di tutte farsi valere per quello che si crede di meritare. Quindi non basta acquisire tutte le competenze necessarie e arrivare ad essere indispensabili per una certa mansione, il riconoscimento di una posizione non è automatico come per un uomo”.
Carriera significa avere una vita in giacca e cravatta?
“Assolutamente no, non ho mai pensato che per poter essere un’avvocata avrei dovuto scimmiottare un collega uomo. Non ho mai incontrato difficoltà dovute al fatto di essere una donna, sinceramente non ricordo di aver conosciuto qualcuno in ambito professionale che mi abbia sminuita o mi abbia fatto pesare il fatto di essere una donna e, se qualcuno aveva questa intenzione, io non me ne sono accorta e sono andata avanti come se nulla fosse, senza mai fermarmi”, sottolinea Giulietta Bergamaschi, managing partner di Lexellent.
Sbagliato, poi per Valentina Pepe, partner di Pepe & Associati, “pensare, come spesso succede, che le donne in carriera debbano allinearsi ai modelli maschili, emulare le dinamiche consolidate. Un errore che toglie poi valore al contesto professionale: la diversità di pensiero, di competenze e di approccio al lavoro costituiscono una ricchezza per il contesto lavorativo, che favorisce il confronto e la crescita”.
Dopotutto, aggiunge Corinne Dentello, marketing manager Italia di DiliTrust, “la chiave del successo in qualsiasi carriera non sta nell’adattarsi a un certo modello, in questo caso prevalentemente maschile, ma nel trovare un percorso che permetta di prosperare come individuo e di avere un impatto significativo.
Inoltre, come confermato da numerosi studi, la tradizionale o convenzionale leadership maschile, caratterizzata da individualismo, controllo e assertività, sta diventando progressivamente inadeguata per i moderni modelli di management che privilegiano invece tratti prevalentemente femminili come la socialità, l’empatia, la cooperazione”.
La carriera si può tradurre in due cose, aggiunge Carmen Chierchia, partner real estate di Dla Piper: “Riconoscere le proprie aspirazioni e avere gli strumenti per realizzare il proprio futuro. La prima, però, bisogna legittimarla, anche se viviamo schiacciate dagli stereotipi che ci confinano in ruoli in ombra ed è necessario rompere questa catena di delegittimazione continua. La seconda, invece, significa avere un welfare solido sull’intero territorio nazionale. Dobbiamo pensare a tutte le donne e non dobbiamo lasciare nessuna indietro. Occorre studiare, capire e conoscere. Entrambe le condizioni significano che la società deve cambiare e la politica deve lavorare molto perché le condizioni di partenza siano adeguate per donne e uomini”.
Leadership femminile, quanto è importante per crescere professionalmente e quanto lo sarà per le nuove generazioni?
“Alcune direbbero che le donne devono dimostrare di essere ‘dure’ quanto e più degli uomini per essere credibili in posizioni di comando nel mondo del lavoro. Io invece credo nell’esempio da mia nonna – che ha fondato l’azienda di famiglia – che ha sempre saputo fare rispettare la propria leadership senza perdere l’empatia e la sensibilità che per il genere femminile rappresentano una marcia in più – racconta Giulia Gritti, direttore marketing e membro del Cda di gruppo Grifal -. Saper comprendere le persone e comunicare con la dovuta attenzione fa infatti la differenza tra un’azienda di successo e una che fatica a crescere perché non riesce ad attrarre e soprattutto a trattenere i talenti necessari per lo sviluppo a cui ambisce”.
Avere a disposizione dei modelli di riferimento che esprimano autorevolezza è fondamentale. Secondo Bergamaschi, “tutti i luoghi di lavoro dovrebbero essere un posto nell’ambito del quale le persone, donne e uomini insieme, costruiscono la parità di genere. Perché si realizzi, occorre lavorare sull’empowerment delle giovani avvocate rafforzando la loro consapevolezza rispetto alle loro capacità e alle loro aspettative, unitamente a quelle dei giovani avvocati”.
La leadership, una aperta e inclusiva e che fa tesoro e protegge le conquiste civili degli anni scorsi e progetta un mondo nuovo, sottolinea Chierchia, “è uno strumento importantissimo per una società sostenibile. Se ne parla molto, ora è il momento di metterla in pratica”.
D’accordo sono anche Francesca Ricci, partner dello studio legale Ughi e Nunziante, e Maria Luisa Visione, consulente finanziaria di Banca Widiba. “Il supporto strutturato di professioniste più senior alle giovani donne è fondamentale e i percorsi di mentoring si stanno dimostrando molto efficaci: aiutano anche le professioniste senior a rivedere il proprio percorso professionale con uno sguardo nuovo e a trovare la carica per continuare il proprio cammino”, sottolinea Ricci.
Per prima cosa, però, bisogna essere leader di sé stesse, suggerisce Visione: “Io ho avuto l’opportunità di guidare e motivare gli altri, e ciò mi ha permesso di crescere esponenzialmente. Il confronto è una grande palestra di fiducia reciproca. Le nuove generazioni rappresentano una sfida per questa trasformazione e credo che la raccoglieranno”.
In particolare, aggiunge, Monica Rota, partner di Nexta, “i giovani di oggi sono sempre più attenti a evitare discriminazioni e nati in un contesto sociale molto diverso rispetto agli anni 50/60, potranno beneficiare appieno delle risorse femminili, purché le politiche sociali mettano in atto effettivi strumenti di tutela delle madri lavoratrici”.
‘Quote rose’, servono ancora? Se sì, dove?
“La risposta è fornita dai dati: dove sono applicate le quote c’è una maggiore presenza di donne nei Cda (intorno al 35%), dove non ci sono la media si abbassa. Significa che il concetto di equità non è ancora diventato ‘intrinseco’ e scontato nelle organizzazioni. Non dimentichiamo comunque due cose: le quote sono di genere e quindi costituiscono un dispositivo a tutela del genere meno rappresentato (chiamarle ‘rosa’ sembra accettare implicitamente che la minoranza sarà solo e sempre quella femminile). Inoltre, il meccanismo delle quote si applica solo alle posizioni apicali: quello che occorre è aumentare la rappresentanza di donne a tutti i livelli delle organizzazioni”, sottolinea Simona Scarpaleggia, board member di Edge Strategy.
Quindi, uno strumento necessario per sviluppare la cultura della parità di genere ma che non rappresentano la soluzione. Per Sordini, infatti, le cosiddette ‘quota rosa’, “non necessariamente permettono di scegliere il meglio. Perché il meglio deve prescindere dal genere. Laddove era possibile imporre con norme le quote rosa, a mio parere, è stato fatto. Ora occorre attendere. È una questione di tempo, di costanza e determinazione da parte delle donne. Deve semplicemente evolversi la mentalità, deve diffondersi l’idea secondo cui donne e uomini hanno le stesse capacità e devono avere quindi le medesime opportunità”.
D’accordo anche Carlotta Benigni, partner tax di Dla Piper: “Credo che le quote rose siano indispensabili a dare a uomini e donne le stesse opportunità, allineando tutti sulla stessa linea di partenza. Poi ovviamente starà al singolo (sia uomo che donna) dimostrare quanto valga nel percorso. L’augurio è di arrivare presto al momento in cui non serviranno più perché la società e il mondo del lavoro daranno alle donne le stesse opportunità senza bisogno di un’imposizione dall’alto”.
Solo in un mondo ideale, infatti, conclude Pepe, si può pensare che una donna possa essere scelta per le proprie capacità e non per un obbligo: “Nel contesto attuale ritengo che si tratti di un compromesso che mi auguro possa contribuire a sradicare pregiudizi e resistenza al cambiamento”.
Gender gap / gender pay gap, se fossimo alla pari non saremmo qui a parlarne, no?
“Purtroppo è così – sottolinea Barone – Ritengo però che si tratti di un’eredità che ci portiamo dietro ma che con gli anni svanirà. Per superare il gap salariale bisogna però andare oltre la concezione per cui le posizioni apicali sono riservate agli uomini. Questo accade ancora oggi come frutto di un retaggio che vedeva la donna costretta a rinunciare alla carriera per gestire la famiglia e crescere i figli. Quando cambieranno le cose? Col tempo, quando ai vertici delle piramidi la proporzione uomo/donna sarà più bilanciata. E non siamo troppo lontani da quel momento. La concezione della famiglia sta cambiando e la consapevolezza delle donne di poter arrivare in alto cresce sempre di più”.
Il legislatore europeo poi si sta muovendo, spiega Ricci: “Nel 2021 ha emanato una proposta di direttiva sul rafforzamento del principio della parità retributiva di genere che tratta il tema metagiuridico dei pregiudizi retributivi inconsci, tuttavia si tratta ancora di una bozza che stenta a decollare”.
In ambito nazionale la ‘Strategia Nazionale per il raggiungimento della parità di genere‘, pubblicata nel luglio 2021, sta andando nella direzione di fornire strumenti di contrasto alla rimozione della differenza retributiva di genere, aggiunge Ricci: “In questo ambito è stata emanata la legge 162 del 5 novembre 2021, che modifica alcune disposizioni del Codice delle pari opportunità adottato nel 2006 e si propone di contrastare il divario retributivo di genere sia attraverso misure premiali per le aziende che rimuovono le discriminazioni, sia attraverso l’adozione di una serie di misure per facilitare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, favorendo la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.
Ma le donne alcuni lavori li vogliono fare?
“Purtroppo alcuni lavori (ma come tanti altri e meno remunerati a dire il vero) richiedono il doppio di energia al ‘genere femminile’ per la doppia gestione famiglia / lavoro. Quindi dipende non dalla voglia ma dal supporto che la donna può avere dalla propria famiglia e dalla società. Anche quest’ultima si deve far carico di questa pari opportunità di accesso perché non ci sono lavori adatti più o meno a un genere in nessun ambito ma bisogna avere la possibilità di avere un realmente pari accesso”, sottolinea Chiara Anceschi, partner finance projects & restructuring di Dla Piper.
E aggiunge Gritti: “Le donne sono meno ‘allenate’ da un punto di vista culturale a considerare percorsi di studio e quindi carriere in ambito scientifico, tecnico ed economico. Ritengo sia fondamentale cambiare questo paradigma, per questo motivo partecipo a iniziative per l’orientamento scolastico e lavorativo come Stem in Pink, un percorso formativo destinato agli studenti (e soprattutto alle studentesse) delle scuole superiori creato da Confindustria Bergamo per favorire delle scelte più consapevoli, grazie alla conoscenza dei trend del futuro, delle opportunità dei percorsi Stem e delle competenze maggiormente richieste dal mondo del lavoro”.
Se da una parte “c’è ancora molta strada da fare per cambiare la mentalità e l’approccio che ancora oggi è presente in azienda e che porta ad avere più uomini che donne nelle posizioni apicali”, spiega Vavassori, dall’altra però “chi deve fare un salto di ‘specie’ sono le donne stesse imparando a chiedere progetti, ruoli e remunerazioni in linea con i risultati raggiunti senza per questo sentirsi in colpa o inadeguate perché poco presenti in famiglia, e in famiglia condividendo le responsabilità e i compiti in modo da poter raggiungere i propri obbiettivi professionali”.
Dalla transizione green a quella pink: si stanno muovendo aziende/studi e come?
Lato aziende sono ormai molte quelle che “vedono i vantaggi che derivano da un luogo di lavoro più equo: accesso a una forza lavoro qualificata, migliore comprensione delle esigenze della clientela, reputazione come datore di lavoro e come marca, solo per indicarne alcune. Oggi anche in Italia si sta affermando la certificazione di genere, che misura lo status quo, verifica strategie e piani d’azione e conferisce ulteriore credibilità attraverso la certificazione di un organismo indipendente”, spiega Scarpaleggia.
Ma anche fronte studi professionali c’è molto fermento sui temi della diversità e dell’inclusione – aggiunge Ricci -. Si tratta di un’esigenza di cambiamento che nasce dalle multinazionali e che sta contagiando gli studi professionali, che sono invitati a diventare più consapevoli e ad adottare misure efficaci sui temi sociali e di governance. È un momento positivo di crescita, di confronto anche intergenerazionale, di studio e approfondimento”.