L’ultima settimana di luglio ha visto le strette cinesi pesare fortemente anche sui listini Ue. Nella giornata di martedì Hong Kong ha perso il 4,22%, Shanghai il 2,5% circa. Il calo sembrerebbe dovuto alla stretta normativa promossa dal governo in diversi ambiti, che vanno dai giganti tech, al settore dell’educazione fino a quello immobiliare: decisioni che iniziano a spaventare gli investitori esteri. Una situazione che, tuttavia, è andata migliorando verso la fine della settimana quando il dragone si è attivato per rassicurare gli investitori e contenere le ricadute sui mercati finanziari. Fang Xinghai, vicepresidente della China Securities Regulatory Commission, ha spiegato ai rappresentanti di alcune banche globali, tra cui Goldman Sachs e Ubs, e di alcune società di investimento spiegando che le strette sono volte alla sicurezza e alla crescita. Se l’avvio di questo primo lunedì di agosto sembra dargli ragione – Hong Kong e Shanghai aprono a rialzo – cerchiamo di capire la situazione e i possibili scenari con Marzio Morgante, fondatore e managing partner di ATA (Asian Tax Advisory) (nella foto).
Può spiegarci cosa è successo la scorsa settimana? A spaventare i mercati sono state davvero le strette di Pechino?
Assolutamente, il giro di vite regolamentare cinese nei settori tecnologico e educazione ha messo a dura prova la seconda economia mondiale, che sta già affrontando un rallentamento della sua crescita e un ulteriore deterioramento delle relazioni con gli Stati Uniti da quando Joe Biden è diventato Presidente. Riguardo il settore tecnologico, Pechino è preoccupata per la sicurezza dei dati e della privacy degli utenti, per garantire il suo monopolio sul controllo di tali dati. L’informazione è potere e Pechino non vuole che altre persone abbiano quel tipo di dati. Da qui l’annuncio di Pechino del 10 luglio che prevede una revisione della sicurezza informatica per quasi tutte le società che cercano di quotarsi all’estero. La decisione recente del Governo cinese di vietare al settore dell’educazione di realizzare profitti, raccogliere capitali o quotarsi ha spinta al ribasso le quotazione delle società cinesi, in particolare nel settore tecnologico e educazione.
In numeri come si è tradotto questo scenario?
L’Hang Seng Tech Index, che include tra le altre colossi come Tencent Holdings e Alibaba Group Holding, è sceso del 22% dal 27 giugno, con un picco negativo fino al 41 per cento. Anche le azioni delle società cinesi quotate negli Stati Uniti hanno subito un duro colpo. L’indice Nasdaq Golden Dragon China, un indicatore delle società cinesi quotate negli Stati Uniti, è sceso del 22% dal 29 giugno, in netto contrasto con l’indice Nasdaq-100, che viene scambiato appena al di sotto del suo massimo storico.
Come vivono la situazione le aziende italiane e straniere operanti in Cina? Le norme fin qui adottate dal governo influiscono sulle aziende italiane nel Paese?
Per quanto concerne le aziende italiane non ci sono impatti immediati diretti in questa crisi in quanto legati a questioni principalmente tra USA e Cina. Inoltre, le nostre aziende hanno una presenza ridotta nel settore tecnologico, in particolare nella regione asiatica. Tuttavia, se inquadriamo tali aspetti in una visione più generale di chiusura della Cina verso l’esterno, sicuramente ciò pone degli importanti temi per quelle aziende italiane che producono o vendono in Cina. Il mercato cinese è sicuramente una grande opportunità, ma porta con sé anche qualche rischio…
A questo proposito: c’è davvero un rischio di fuga degli investitori esteri?
L’ultima nuvola che incombe sulle società cinesi quotate negli Stati Uniti è l’incertezza su come le autorità di regolamentazione statunitensi applicheranno la Holding Foreign Companies Accountable Act dello scorso anno, che richiede alle società straniere di aderire agli standard di audit statunitensi per poter quotarsi negli USA. Il governo cinese ha a lungo impedito alle aziende cinesi di fornire le informazioni necessarie per conformarsi ai requisiti di audit degli Stati Uniti. Ci sono circa 248 società cinesi quotate nelle borse statunitensi con un valore di mercato combinato di oltre 2 trilioni di dollari, quindi il processo di delisting potrebbe essere disordinato e doloroso. Per gli investitori ciò rappresenta un rischio che deve essere ponderato con molta attenzione. Se non si è al passo con l’evoluzione legislativa negli Stati Uniti, gli investitori potrebbero ritrovarsi a possedere delle azioni rimosse dai listini americani.
Fang ha ribadito che la Cina non ha intenzione di separarsi dai mercati globali, soprattutto da quelli degli Stati Uniti. Quali sono, secondo lei, i prossimi passi del dragone?
La Cina ha sicuramente interesse a raggiungere un accordo con gli Stati Uniti. Per ora, la Cina vuole che le proprie aziende continuino a quotarsi e raccogliere capitali in valuta pregiata sui mercati americani, in quanto il suo mercato borsistico interno non è ancora sufficientemente sviluppato. Allo stesso tempo c’è molto interesse a Wall Street per mantenere nel listino le società cinesi che portano enormi commissioni legate alle operazioni di IPO. In sostanza, le due potenze sono così interconnesse, sia dal punto di vista commerciale che finanziario, che dovranno procedere con grande cautela per non danneggiare le rispettive economie al fine di risolvere la crisi.