Sono passati ormai dieci anni dalla crisi del credito deteriorato, quando le banche si erano trovate in pancia centinaia di miliardi di crediti che non potevano più riscuotere, con pesanti conseguenze a livello di bilancio e quindi della loro capacità di erogare credito. Erano oltre 340 miliardi di euro di crediti deteriorati per l’esattezza, nell’anno di picco 2015. Da lì si è creato un mercato, sono nati operatori specializzati come i servicer e l’emergenza è rientrata grazie al lavoro di due diligence, analisi e valutazione di pacchetti e crediti singoli fatto da tutti i soggetti coinvolti, a partire dalle banche.

Oggi la situazione è ben diversa. Come rileva PwC a giugno 2023 il totale delle non-performing exposure, compresi quindi anche gli unlikely to pay oltre ai non performing loans, ammontava a 56 miliardi di euro. Non c’è più dunque l’urgenza e la necessità di trovare qualcuno disposto a comprare e gestire questi crediti, molti dei quali, nel caso degli Utp, celano ancora del valore da recuperare.

È dunque un’evoluzione naturale del mercato il fatto che i servicer stiano cambiando pelle. Ne scrivevo la scorsa settimana e torno sull’argomento non solo perché ieri si è svolta la Conference in Deep su NPE & Restructuring organizzata da Dealflower, ma anche perché tra i vari e interessanti spunti emersi mi ha colpito quello di Edoardo Lombella, responsabile della gestione delle NPe di Banco Bpm, secondo il quale oggi questo mercato non esiste praticamente più.

Non a caso l’attenzione si è spostata oltre che sugli Utp anche sugli Stage 2, cioè quei crediti che manifestano un aumento significativo del rischio ma senza evidenze oggettive di una riduzione di valore. Sempre Pwc ha rilevato che lo stock dei crediti Stage 2 in Italia è cresciuto di oltre il 25% negli ultimi cinque anni a quota 211 miliardi di euro. La cifra è considerevole ma c’è da tenere conto di un aspetto importante: perché le banche dovrebbero cedere crediti che seppur non sicuri al 100% hanno ancora intatto il valore che rappresentano? Se non ci fosse stato lo tsunami di dieci anni fa, i regolatori avrebbero imposto agli istituti di credito di cedere questi crediti? No, e infatti non lo stanno facendo neanche ora. Ciò che auspicano, ed è ciò che le banche stanno facendo, è il monitoraggio, l’analisi e la creazione di un flusso informativo che consenta di capire rapidamente se e quando dovessero iniziare i problemi veri.

Il punto allora è che un mercato vero e proprio delle non perfoming exposure oggi non sembra davvero esistere più. Mi vengono in mente i vecchi Blackberry, soppiantati dagli attuali smartphone. Nel caso degli npl a “battere” il mercato è stato il suo stesso funzionamento, talmente efficiente – almeno dal punto di vista della compravendita – da non essere più necessario.

Allora è tutto perduto? La risposta è ovviamente no, non fosse altro perché da questa esperienza ne sono nate o sviluppate professionalità ben precise a più livelli mentre le banche si sono strutturate, adottano un approccio diverso al credito e sono pienamente capitalizzate. I mercati nascono e muoiono, come tutte le cose “vive”. L’importante è tirarne fuori il valore generato e usarlo per evolvere.

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