Nell’ultima sessione della conference in deep Private Capital di Dealflower, dopo aver parlato di come il settore si stia evolvendo e quali siano le problematiche che si stanno affrontando, si è parlato dell’impegno di chi crede nel comparto mettendoci appunto le risorse. A rappresentare questo commitment sono Luigi Tommasini, senior partner di Fondo italiano d’investimento Sgr, Sergio Corbello, presidente di Assoprevidenza, Giovanni Maggi, presidente di Assofondipensione, e Matteo Squilloni, head of Southern Europe – lower mid-market di Fondo europeo per gli investimenti.
Cambiare la mentalità
Quando si affronta il tema fundraising esempio del panorama italiano è proprio Fondo italiano d’investimento Sgr che, come ha raccontato Tommasini, è nato 13 anni fa e in questo tempo ha aiutato a mobilitare circa 12 miliardi di euro nel mercato italiano. Questi 12 miliardi poi a oggi hanno investito in oltre 600 imprese: “Noi lo abbiamo fatto con un concetto molto semplice, partendo dall’idea di essere da un lato un investitore come tutti gli altri – e quindi il principio per poter far funzionare il mercato è che ci siano dei ritorni – ma anche con l’idea di facilitare la creazione dei mercati finanziari che in Italia 10 anni fa non erano particolarmente sviluppati”.
La colpa non sarebbe da attribuire al mercato italiano, continua il senior partner, ma banalmente al 90% agli investitori che nel nostro paese al tempo erano dei turisti e marginali. “In Italia purtroppo non c’era una disciplina di governance all’interno dei fondi – continua Tommasini -. Nel 2010 alcune società di gestione più rinomate non hanno avuto la capacità di passare i propri cambiamenti generazionali o problematiche interne che hanno avuto. Quindi Fondo italiano, insieme al Fondo europeo, si è preso la responsabilità di dare questa disciplina al mercato e aiutare a mobilitare del capitale. Da ultimo abbiamo investito circa 2 miliardi e questi 2 miliardi hanno mobilitato circa 12 miliardi”.
In 13 anni di esistenza, quindi, Fondo Italiano ha investito in circa 70 fondi in Italia e “in nessuno dei fondi in cui abbiamo investito abbiamo avuto delle tematiche reputazionali o problematiche mai risolte secondo i canoni che ci siamo dati con gli investitori”, aggiunge Tommasini.
Ciò che serviva era un cambiamento culturale e questo sta continuando, soprattutto grazie alle tematiche Esg: “Le società di gestione prima erano monopromoddotte – spiega il senior partner -, mentre ora grazie alla componente Esg, stanno diventando sempre di più multiprodotto, una piattaforma”.
Più Esg e sostenibilità
D’accordo con Tommasini è anche Squilloni, che sottolinea che anche Fondo europeo per gli investimenti, in qualità di istituzione europea, sta chiedendo sempre di più un cambiamento culturale ai propri gestori nei nostri portafogli che sta andando verso due obiettivi strategici: innovazione e sostenibilità ambientale.
“Quello che stiamo cercando di fare è chiedere di modificare il loro modo di investire per includere queste due nuovi elementi. Fino a oggi la nostra due diligence era per l’80% focalizzata sull’analisi del team e della perfomance finanziaria e tutta la parte di analisi non finanziaria, di creazione di valore, sfociava poi nei rendimenti. Quello che ci interessava era garantire che il team in cui investivamo potesse avere un track record di successo e poi una sostenibilità di medio o lungo periodo. A oggi è il contrario”, spiega l’head of Southern Europe – lower mid-market del Fondo europeo.
In che modo? Squilloni racconta che Fondo europeo parla a oggi sempre di più di tematiche Esg, chiedendo ai propri gestori che nelle società di portafoglio si impegnino a fare delle strategie non finanziarie, ma di efficienza energetica, di sostenibilità anche sociale, miglioramento delwelfare.
“Noi non chiediamo un obiettivo di fondo: tutte le società devono ridurre del 10% le emissioni di co2. Quello che chiediamo è che debba esserci nella strategia di investimento iniziale un commitment forte che sia verticale su un settore o su una differenziazione orizzontale, un forte impegno per creare degli obiettivi che sono più declinati a livello di portfolio company”, aggiunge Squilloni.
L’iniziativa privata
In questi anni di rendimenti bassi sui mercati il private market è stato un po’ uno spazio di attenzione anche per il mondo previdenziale, ma adesso che si sono alzati i rendimenti Corbello rassicura che non torniamo indietro.
“Nell’ambito dei fondi pensione la scelta di investimento dei fondi pensione non è opportunistica e rapida, c’è un piano di investimento, si fanno dei ragionamenti di medio lungo termine, non c’è quindi una ricerca immediata del ritorno. Il dato interessate però è che il mondo degli investimenti alternativi è stato ricercato in un momento in cui il rendimento dei titoli di Stato non erano così interessanti. Ma c’è una ragione in più per fare questo tipo di investimento e cioè, la diversificazione”, aggiunge presidente di Assoprevidenza.
Concorde è anche Maggi che aggiunge che “i fondi pensioni italiani, come le sgr italiane e le aziende italiane, soffrono ancora di nanismo soprattutto se confrontati con altri paesi europei. Ad esempio, i 70 miliardi, che sono il patrimonio dei 33 fondi negoziali italiani, che si riferiscono al 30% dei tassi di adesione, cubano nemmeno quanto il più grande fondo pensione olandese che cuba 350 miliardi”.
Necessario quindi muoversi verso un processo di aggregazione, in ottica di globalizzazione, di crescere in maniera esponenziale per essere più competitivi sul mercato, sottolinea il presidente di Assofondipensione che aggiunge che “viene investito poco nel private market. Di quei 70 miliardi nostri, solo il 3% investito in private market. Le cose stanno lentamente cambiando per un’ottica di diversificazione del rischio e del patrimonio”.