Cambiano le edizioni ma la criticità principale resta sempre la stessa, per i general partners dei fondi di private capital italiani presenti alla consueta convention Ipem di Cannes: la raccolta.

Il problema risiede paradossalmente nello stesso luogo della soluzione cioè gli investitori istituzionali, quei soggetti che naturalmente – almeno in altri Paesi – sono i principali deputati a investire fra le altre in questa asset class. In Italia, praticamente, lo fanno poco o per niente. Mentre il loro peso specifico aumenta anno dopo anno: stando all’ultima ricerca di Itinerari previdenziali, il patrimonio degli investitori istituzionali che operano nel welfare contrattuale (fondi pensione negoziali, preesistenti e fondi sanitari integrativi), le Casse pensionistiche privatizzate dei liberi professionisti e le Fondazioni di origine Bancaria, nonostante le crisi economiche e finanziarie di questi ultimi 15 anni, dal crollo dei mutui subprime del 2008 alla pandemia da COVID-19 del 2020, è costantemente aumentato, passando dai 142,85 miliardi di euro del 2007 ai 282,97 del 2021 (erano 269,84 nel 2020), con un incremento del 98,1%. Rapportato al Pil, il patrimonio di questi investitori è pari al 15,9%, cifra che sale al 55,5% considerando anche il patrimonio del welfare privato (Compagnie di Assicurazione del settore vita, rami 1, 4 e 6, prevalentemente di natura previdenziale, Fondi Aperti e PIP).

Si tratta di risorse ingenti dei quali mediamente solo il 3% viene investito nelle alternative asset class, cioè quelle non sul mercato e tendenzialmente illiquide. La quota varia a seconda dei soggetti, le Casse ad esempio sono più attive rispetto ai Fondi pensione, ma la sostanza resta la stessa: si tratta di briciole, peanuts, rispetto a quanto potrebbe davvero investire l’industria. Senza considerare poi che nel calderone è incluso anche il real estate, di gran lunga l’alternative preferito.

In questi anni di rendimenti asfittici sui mercati, tale insieme di soggetti aveva guardato con più attenzione al private market ma adesso, con la ripresa della borsa, il rischio di una marcia indietro è sempre più concreto, il che rischia di infliggere un colpo particolarmente duro all’industria soprattutto di private equity e private debt.

La situazione dunque è critica, perché finché gli istituzionali non inizieranno a investire in maniera corposa e sistematica nel private capital questo farà fatica a evolversi e a maturare come accaduto negli altri paesi europei (senza scomodare gli Stati Uniti).

Le ragioni di questa relazione platonica sono molteplici e benché siano note fra gli addetti ai lavori è bene ricordarne qualcuna, per mantenere alta l’attenzione su un problema serio che incide indirettamente anche sull’economia reale e quindi sulle imprese.

Un primo aspetto è sicuramente culturale. Avendo gli istituzionali investito sempre in asset class tradizionali, a partire da Bot e Btp, non hanno sviluppato internamente le competenze in grado di comprendere la complessità di questo tipo di investimento. C’è da dire anche che parliamo di un settore dalle dinamiche ancora particolarmente vetuste, nella gestione e nell’approccio ai cambiamenti del mondo. Inoltre, spesso i team dedicati all’investimento in alternativi sono piccoli, due o tre persone, che gestiscono risorse per miliardi di euro. Il che espone al rischio di incappare in logiche di investimento non propriamente di mercato ma più personalistiche.

La notizia positiva, come già accennato, è che uno sforzo in direzione di una maggiore apertura è stato fatto mentre dall’altro lato private equity e private debt non hanno forse portato avanti abbastanza iniziative per coinvolgere questi soggetti. Servirebbe avviare un lavoro comune per svolgere attività di education, inclusione e dibattito in modo da sciogliere tutti i dubbi che gli investitori possono avere, rendere chiari i ritorni e facilitare la relazione.

Un secondo motivo è l’assenza o quasi, totalmente priva di senso in un mercato maturo, di fondi di fondi privati che nascono proprio con la duplice finalità di mitigare il rischio ed eliminare il problema della dimensione dei private capital italiani, paradossalmente troppo piccoli per i ticket di investimento che gli istituzionali possono dare. Il risultato è che tutti vogliono il latte dalla mammella dei fondi di fondi pubblici – vedi quelli del Fondo italiano d’investimento. Il quale però, fra gli altri, raccoglie dagli stessi soggetti che investono poco o nulla negli operatori privati con evidente rischio cannibalizzazione delle risorse.

Un terzo, e ultimo per questo già lungo editoriale, è l’assenza di un efficace intervento pubblico. Il governo, con il ministero dell’Economia, dovrebbe seguire l’esempio della Francia e andarci giù pesante da un lato imponendo una quota minima di investimento in queste asset class e dall’altro inserendo sgravi fiscali il più possibile vantaggiosi. I benefici di una simile attività sono evidenti, sia per le imprese che così avrebbero più soggetti da scegliere come possibili partner in un percorso di crescita, sia per l’industria del private capital in sé che potrebbe svilupparsi fino a raggiungere i livelli degli altri paesi europei.

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