Riassunto
Costi fissi troppo alti e indebitamento monstre. Le società di calcio sono aziende in costante pericolo di vita. Camminando sul filo del rasoio, i club europei si sono fatti male, chi più e chi meno, con la spinta arrivata dal Covid-19. Il progetto della SuperLega è stata una risposta maldestra a un’emergenza vera e grave: i dodici club promotori l’anno scorso avevano un indebitamento pari a 7,2 miliardi, cifra che fatalmente è salita nella stagione 2020/2021, a fronte di ricavi in picchiata: nel 2020 il fatturato medio dei primi venti club europei era sceso di 55 milioni ed è scontato che la flessione quest’anno sia stata ancora più accentuata. Il valore di impresa dei 32 principali club europei è caduto di 6,1 miliardi. Da qui la risposta della SuperLega, naufragata – forse non per sempre – a causa dell’opposizione della politica e delle tifoserie organizzate. Ma le società sono con l’acqua alla gola, come testimonia la ricerca frenetica di risorse fresche da parte dell’Inter. Ci vorrebbe una visione d’insieme, una strategia complessiva, che assolutamente non c’è. Anzi, i club si stanno facendo la guerra sulla gestione dei diritti tv. Il rischio, tutt’altro che peregrino, è che, per quanto il prodotto calcio resti appetibile, ci si stia scannando tra “poveri”.
La stagione calcistica 2020/2021 entrerà negli archivi e nella memoria degli sportivi per due eventi: la tormentata gestione dell’emergenza sanitaria e il naufragio del progetto SuperLega. E c’è un filo rosso (il colore del debito) che lega questi fatti.
Terminata l’annata, a qualche settimana di distanza, si può ragionare con più raziocinio e meno demagogia sulla SuperLega, fermo restando che si è trattato di un flop sul fronte della comunicazione.
Con la chiusura dei bilanci, il prossimo 30 giugno, si avrà una misura dell’impatto della pandemia da Covid-19 sulle società calcistiche. Già da ora, però, si può dire che è stato un disastro.
I numeri di Kpmg
Un’anticipazione sull’impatto del Covid l’ha fornita Kpmg Football Benchmark nel report annuale Football Clubs’ Valuation: The European Elite.
Dopo una crescita continua registrata negli ultimi sei anni, il valore d’impresa aggregato delle 32 squadre dell’élite del calcio europeo è calato di 6,1 miliardi di euro rispetto al 2019. Il valore complessivo è sceso a 33,6 miliardi, con un calo del 15%.
Il Real Madrid, con un valore di 2,909 miliardi, si conferma al primo posto nella classifica delle 32 principali società di calcio a livello europeo per valore d’impresa. Il club madridista si colloca davanti a Barcellona e Manchester United. La Juventus prende il posto dell’Arsenal tra le prime dieci, con un valore d’impresa di 1,480 miliardi. Per la prima volta entra nel ranking l’Atalanta (24esima posizione), con un valore d’impresa di 364 milioni.
L’impatto della pandemia è evidente anche nella redditività dei club: nel 2020 solo sette dei primi 32 club europei hanno registrato un utile netto, rispetto ai venti del 2019.
Il report di Kpmg evidenzia che, nonostante la mazzata ricevuta nel 2020, il quinquennio dal 2016 resta positivo: i 32 club hanno aumentato il valore aggregato del 27%. L’Inter ha registrato la maggior crescita percentuale negli ultimi cinque anni (+120%). Bene anche la Juventus: +51%. Segno meno per il Milan (-22%), che ha fatto peggio di tutti. Performance negative per FC Schalke 04 (-20%) e Arsenal (-13%).
Un capitolo del documento è dedicato agli impatti della pandemia sul sistema calcio. Secondo le stime, i club di calcio più importanti appartenenti alle 55 associazioni aderenti Uefa registrano una riduzione su base annuale dell’11% dei ricavi operativi aggregati (-2,7 miliardi) rispetto alla stagione 2019/2020.
Anche i valori dei cartellini dei giocatori hanno pagato dazio: il valore di mercato aggregato dei 500 giocatori di calcio con il valore economico più alto è diminuito del 10% tra febbraio 2020 e aprile 2021.
Gli ottanta club che finora hanno reso pubblici i risultati finanziari, nota Kpmg, hanno registrato una perdita netta aggregata di 2,04 miliardi.
I numeri di Deloitte
I primi venti club nella stagione 2019/2020, secondo Deloitte Football Money League, avevano registrato un fatturato di 8,2 miliardi di euro, in calo del 12% rispetto alla stagione precedente. Una contrazione di 1,1 miliardi dovuta principalmente a: un crollo di 937 milioni (-23%) dei proventi dei diritti televisivi, a causa del differimento delle entrate e degli sconti concessi ai broadcaster; una riduzione di 257 milioni (-17%) dei ricavi da stadio; una crescita dei ricavi commerciali di 105 milioni di euro (+3%).
Considerando che la stagione 2019/2020 non era stata impattata dal virus sino a marzo, è ragionevole stimare che quella che si va chiudendo abbia registrato cifre ben peggiori.
Deloitte, nel report, anticipava che i ricavi da matchday in questa stagione sono stati sostanzialmente pari a zero. Inoltre, le leghe che gestiscono i cinque principali campionati europei (Premier League, Liga, Serie A, Bundesliga e Ligue 1) hanno dovuto concedere ai broadcaster sconti sui contratti dei diritti di trasmissione delle partite ancora più corposi di quanto concordato nella stagione scorsa.
E’ vero che una parte dei ricavi della stagione 2019/20 è stata spostata all’anno fiscale successivo perché l’interruzione dovuta al Covid-19 ha allungato le partite giocate sino a fine luglio. Poco cambia, però, nella sostanza: il calcio ha ricevuto una mazzata che avrebbe tramortito il più massiccio dei tori, figuriamoci una vacca stanca e acciaccata come il pallone, alle cui mammelle sono attaccati in tanti, troppi.
I primi venti club hanno generato in media 409 milioni di euro di fatturato ciascuno, un calo di 55 milioni di euro rispetto al 2018/19. L’obiettivo prioritario che si era posta l’industria del pallone all’inizio della nuova stagione, ovvero il ritorno dei tifosi allo stadio in sicurezza, non è stato raggiunto, con l’eccezione della Premier League.
I club più ricchi sono anche quelli che hanno perso maggiormente a causa della pandemia. Il Barcellona aveva raggiunto un fatturato di 840,8 milioni nell’annata 2018/19 ed è crollato a 715,1 milioni nella stagione seguente; e tutto fa pensare che il 2020/21 abbia registrato un ulteriore peggioramento.
I catalani sono tallonati dai grandi rivali del Real Madrid, che nella passata stagione avevano raggiunto un fatturato di 714,9 milioni. Il club presieduto da Florentino Perez aveva contenuto le perdite nel 2019/20 grazie a un incremento dei ricavi commerciali di 28,1 milioni (+8%); una posta straordinaria legata all’estensione di alcune partnership e al trasferimento in-house di talune attività; impossibile replicare la performance, quindi è probabile che la stagione in corso sia stata un disastro per la Casa Blanca.
La SuperLega non è morta
Non a caso, Real Madrid e Barcellona sono, con la Juventus, i principali promotori della SuperLega. Questi tre club non hanno ancora rinunciato al progetto, come fatto formalmente dagli altri nove promotori. E, di fatto, la SuperLega non è morta perché Real Madrid, Barcellona e Juventus non si sono tirate indietro.
Gli altri sono andati a Canossa. Hanno chiesto scusa alla Uefa e, per aver chinato la testa, sono stati
perdonati. L’organismo guidato da Aleksander Ceferin (nella foto a destra) ha sanzionato i nove ex ribelli con una trattenuta del 5% sui ricavi che riceveranno dall’Uefa. I nove hanno accettato una multa di 100 milioni se cercheranno di giocare “in una competizione non autorizzata”.
La Uefa ha deferito Real Madrid, Barcellona e Juventus, che teoricamente rischiano l’esclusione dalle competizioni europee. Nei confronti degli scissionisti, dopo il deferimento, è iniziato l’iter per punirne la ribellione.
I tre club hanno risposto con un comunicato in cui sostengono di aver “ricevuto, e continuano a ricevere, inaccettabili pressioni, minacce e offese da terze parti al fine di ritirare il progetto proposto e, conseguentemente, desistere dal loro diritto/dovere di fornire soluzioni all’ecosistema del calcio mediante proposte concrete e un dialogo costruttivo. Ciò è intollerabile in punto di diritto e la giustizia si è già pronunciata in favore della proposta di Super League, ordinando a Fifa e Uefa di astenersi, sia direttamente, sia per il tramite dei propri associati, dall’intraprendere ogni azione che possa pregiudicare l’iniziativa in qualsiasi modo in pendenza del procedimento”.
I tre club scissionisti ribadiscono la bontà del progetto, ma fanno due passi indietro e uno avanti. Le due retromarce riguardano l’annuncio che la SuperLega nascerà “quando riconosciuta da Uefa, da Fifa o da entrambe”. L’altro passo indietro riguarda l’apertura a modifiche dell’architettura del nuovo torneo. “Siamo pronti a riconsiderare l’approccio proposto, per quanto necessario”, si legge nella nota.
Il passo avanti riguarda una duplice promessa/minaccia di battaglia legale. Nei confronti dei club che si sono ritirati, che si trovano “in posizione incoerente e contraddittoria”. E nei confronti degli organismi che attualmente gestiscono l’industria del pallone. La questione potrebbe arrivare davanti alla Commissione Ue, in particolare all’Antitrust, che, in maniera informale, ha già fatto sapere di essere favorevole a tutte le soluzioni che rompano i monopoli in un settore, come quello dell’Uefa nel calcio. In sostanza, la SuperLega, fermata alle porte, potrebbe rientrare dalla finestra, per via giudiziaria. Per intanto, la vicenda è arrivata davanti alla Corte di Giustizia Ue.
Non a caso, il presidente della Fifa, Gianni Infantino, ha adottato una posizione meno rigida rispetto a Ceferin, proponendosi come facilitatore del dialogo tra le parti. “Appoggiamo la Uefa, ma ora spazio al dialogo”, ha affermato Infantino. Anche la frase sibillina del comunicato dei tre club ribelli sul riconoscimento della Fifa e non dell’Uefa potrebbe essere il segnale che Infantino potrebbe scavalcare Ceferin e avallare la SuperLega, magari con una formula che coinvolga anche altre federazioni internazionali. Di certo, agli organismi del calcio non conviene andare al muro contro muro: rischierebbero di perdere nei tribunali e a Bruxelles. Incassato il successo politico e di immagine con lo stop al progetto scissionista, ora occorre negoziare.
Da questo orecchio, però, Ceferin non pare sentirci. Alle parole di Agnelli, tornato sul tema SuperLega (“Non si è trattato di un colpo di stato, ma di un grido d’allarme”), il numero uno dell’Uefa ha replicato: “Quella persona per me non esiste più”.
Un’élite del debito
Scorrendo la graduatoria di Deloitte al quarto posto si incontra il Manchester United, che nella stagione 2019/20 ha visto crollare le entrate: -19%, a 580,4 milioni. I Red Devils fanno parte della pattuglia di club inglesi che inizialmente ha abbracciato il progetto SuperLega, salvo abbandonare la barca in rapida sequenza per via dell’opposizione feroce del premier Boris Johnson e delle proteste di piazza dei tifosi. Accanto allo United c’erano Liverpool (ricavi per 558,6 milioni nella stagione scorsa), Manchester City (549,2 milioni), Chelsea (469,7 milioni) e Tottenham Hotspur (445,7 milioni).
A completare la top ten di Deloitte sono Paris Saint-Germain (ricavi per 540,6 milioni) e Juventus (397,9 milioni). Il club francese ha affiancato il Bayern Monaco nel fornire una stampella a Ceferin. Perché? La risposta risiede probabilmente nella strategia politica della proprietà, il principe qatariota Nasser Ghanim Al-Khelaïfi, focalizzato sui Mondiali in Qatar dell’anno prossimo e, pertanto, fedele alleato di Uefa e Fifa.
La proprietà della Juventus è chiaramente uscita con le ossa rotta dalla vicenda SuperLega. Andrea Agnelli (a sinistra nella foto di copertina) è stato asfaltato da Ceferin sul piano della comunicazione. Secondo indiscrezioni di stampa, il presidente del club bianconero sarebbe anche ai ferri corti con Perez, principale alleato nel progetto. Il presidente madridista imputerebbe al collega di avergli assicurato un consenso istituzionale (in particolare, una neutralità dei vertici Uefa) che, come si è visto, non c’era. Sconcertante la sottovalutazione della reazione della politica e dell’opinione pubblica.
E dire che, secondo un sondaggio condotto da Izi, il 55% dei tifosi italiani è favorevole alla SuperLega; questa voce, però, non si è sentita nelle giornate calde e frenetiche seguite all’annuncio, mentre ampio spazio hanno avuto i contrari, incarnati dalle curve degli stadi, poche centinaia di persone a fronte di milioni di fans. Ma l’errore di comunicazione resta ed è grave.
Nascondere la testa nella sabbia, andando avanti come se nulla fosse, peraltro, non serve. E non risolve il problema. Il calcio è un’industria che produce ricavi insufficienti rispetto ai costi. Guardando ai bilanci al 30 giugno scorso, i dodici club fondatori della SuperLega sono gravati da un debito complessivo di 7,2 miliardi. Il rosso più profondo è in capo al Chelsea (1,51 miliardi), seguito da Tottenham (1,28 miliardi), Barcellona (1,173 miliardi), Real Madrid (901 milioni), Inter (630 milioni), Manchester United (528 milioni), Atletico Madrid (494 milioni), Juventus (458 milioni), Liverpool (272 milioni), Manchester City (200 milioni), Milan (151 milioni) e Arsenal (125 milioni).
L’Inter vince sul campo e perde sul bilancio
L’Inter è fuori dalla top ten di Deloitte e ha formalizzato il passo indietro dalla SuperLega. I nerazzurri hanno vinto lo scudetto nonostante un’annata tormentata, caratterizzata dalla ricerca di un partner che iniettasse finanza fresca e dai ritardi nei pagamenti degli stipendi ai calciatori.
Abbandonato il negoziato con BC Partners, Suning – affiancato da Goldman Sachs e DLA Piper – ha optato per un prestito. Dopo aver sondato diverse investment company, il 20 maggio scorso il club nerazzurro ha annunciato di aver optato per Oaktree Capital Management.
L’architettura finanziaria prevede che il maxi-prestito sia concesso alla holding lussemburghese di Suning, Great Horizon Sarl, che ha dato in pegno le azioni dell’Inter. Great Horizon, in un secondo tempo, farà arrivare al club le risorse tramite un aumento di capitale.
Con un debito di oltre 600 milioni, di cui 375 milioni in bond, l’Inter è finanziariamente debole da diversi anni. La pandemia ha affossato i ricavi, rendendo pericolosa questa debolezza. Anche perché con Suning è cresciuto in modo esponenziale il monte stipendi, mentre le indicazioni del governo di Pechino sul carattere non strategico degli investimenti nel pallone hanno ridotto le sponsorizzazioni asiatiche. Una tempesta perfetta, che rischia di rovinare la festa a un club tornato a vincere lo scudetto dopo undici anni.
Anche all’epoca, peraltro, un’annata straordinaria dal punto di vista dei risultati sportivi (nel 2010 l’Inter vinse campionato di Serie A, Coppa Italia e Champions League) coincise con l’inizio di una fase di difficoltà economico-finanziarie, che spinsero Massimo Moratti a cedere la società a Erik Thohir.
In attesa di trovare una soluzione strutturale, il presidente del club nerazzurro, Steven Zhang (a destra nella foto di copertina), ha chiesto alla squadra di rinunciare a due mensilità, ricevendo un no come risposta. Antonio Conte, conquistato lo scudetto, ha rescisso il contratto, affatto convinto di poter restare alla guida di un gruppo che, per ragioni di bilancio, in estate perderà almeno un pezzo pregiato. Il principale candidato, allo stato, è il marocchino Achraf Hakimi. Ma potrebbe non bastare: il gossip di calciomercato indica in Lautaro Martinez un altro possibile partente. Zhang, infatti, ha fatto sapere che, nonostante il prestito incassato, intende chiudere la campagna acquisti e cessioni con un saldo positivo di 70-80 milioni.
L’onerosità del finanziamento erogato da Oaktree e il rischio che, in caso di mancata restituzione, l’investment company diventi l’azionista di maggioranza testimoniano che la società nerazzurra non è bancabile. Servirà un risanamento dei conti, attraverso il taglio dei costi, e un rilancio delle entrate, che probabilmente arriverà con la fine della crisi sanitaria.
Il prodotto calcio continua a piacere
La parabola dei nerazzurri è paradigmatica dei paradossi del calcio. Per vincere bisogna spendere tanto, così da alimentare il fatturato e vincere ancora. Il circolo, virtuoso e vizioso al contempo, funziona finché non intervengono fattori esogeni che fanno cadere le entrate. Con costi fissi normalmente pari al 55-60% del fatturato, i club calcistici si reggono su un equilibrio precario e basta uno scostamento anche lieve per farli cadere; se, poi, arriva una bufera, come accaduto con il Covid-19, i costi fissi arrivano al 70-80% dei ricavi e, come ha sottolineato l’amministratore delegato dell’area sportiva dell’Inter, Giuseppe Marotta, nessuna azienda è in grado di restare in piedi in queste condizioni.
La SuperLega è stata una risposta a un’emergenza. Forse non è l’unica possibile. Il prodotto calcio continua a piacere. Lo testimoniano gli acquisti di club italiani da parte di investitori esteri. L’ultima operazione, in ordine cronologico, l’ha messa a segno Robert Platek, che ha acquisito la proprietà dello Spezia. A fine gennaio era stato Alex Knaster a mettere le mani sulla maggioranza del capitale del Pisa. Qualche settimana prima Kyle Krause aveva acquisito il Parma, mettendo in campo un progetto strategico che, nelle intenzioni, dovrebbe creare un filo rosso tra calcio e investimenti nel food&wine. Intanto, però, a dimostrazione che nel calcio ai piani ambiziosi occorre dare concretezza e trovare risultati anche nel breve termine, il Parma è retrocesso in Serie B.
Sport e private equity, un amore che cresce nel tempo
L’estate scorsa era stato James Friedkin a comprare la Roma, peraltro ceduta da un altro investitore a stelle e strisce, James Pallotta. Risale al 2019 l’acquisizione della Fiorentina da parte di Rocco Commisso, chiare origini italiane ma nazionalità statunitense.
Sebbene al termine di una vicenda turbolenta e non priva di ombre, anche l’investment company Elliott Management Corporation di Paul Singer, nell’estate del 2018, ha messo le mani sul Milan. Da tempo in mani nordamericane è il Bologna, guidato dal canadese Joey Saputo. Balzo al gennaio scorso per parlare di Joe Tacopina, avvocato Usa (lui pure, ovviamente, di origine italiane), che, da tempo interessato al calcio di casa nostra, ha acquistato il Catania, piazza storica e dalle grandi potenzialità.
La miniera d’oro dei diritti tv
Il prodotto calcio piace talmente tanto che Dazn ha messo sul piatto 840 milioni per i diritti di trasmissione di dieci partite a giornata, di cui sette in esclusiva, per il triennio 2021-2024. Sky ha presentato ricorso contro l’assegnazione.
In precedenza, a marzo, l’asse fra Juventus, Inter e Napoli aveva affossato le trattative, avviate l’estate scorsa, per la creazione di una media company che gestisse i diritti tv della Lega Calcio, con l’ingresso nel capitale, con una quota del 10%, del consorzio formato dagli operatori di private equity Cvc Capital, Advent International e FSI. Non è detto, peraltro, che il progetto sia del tutto tramontato. I fondi starebbero ragionando su una nuova offerta.
Sponsorizzata dal presidente della Lega, Paolo Dal Pino (nella foto a sinistra), l’operazione con i fondi ha portato a uno scontro tra quest’ultimo e i management di Inter e Juventus, accusati di boicottaggio. In risposta, Marotta e Agnelli (ex grandi amici, che non si sono lasciati in buoni rapporti) hanno promosso una lettera, firmata da sette club (Atalanta, Fiorentina, Inter, Juventus, Lazio, Napoli ed Hellas Verona), per sfiduciare Dal Pino. Poi è arrivata la proposta della SuperLega, con lo strascico di polemiche e accuse che conosciamo. Undici società (Roma, Torino, Bologna, Genoa, Sampdoria, Sassuolo, Spezia, Benevento, Crotone, Parma e Cagliari) hanno inviato una lettera a Dal Pino per chiedere sanzioni nei confronti di Juventus, Inter e Milan. Le prossime assemblee di Lega si preannunciano infuocate.
Attorno al pallone, insomma, volano gli stracci. Un altro paradosso, uno dei tanti che caratterizzano questo mondo, in una fase di crisi, che imporrebbe soluzioni di sistema e condivise, non demagogia e ragionamenti da bottegai. Se i tifosi sono faziosi per definizione, le proprietà dei club dovrebbero avere una visione strategica d’insieme. Non è detto che, ragionando in modo razionale, una SuperLega rivista e corretta non torni d’attualità in futuro.
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