Il rapporto tra Stato e mercato è uno degli argomenti più divisivi nel mondo economico-finanziario, attorno al quale cui economisti molto più esperti e competenti della sottoscritta dibattono e discutono da parecchi decenni e non sarò di certo io, con la mia mesta opinione, a sancire quale delle due fazioni sia quella corretta.
Ciò che però posso dire, da osservatrice del mercato, è che se l’interventismo pubblico in finanza appare in qualche modo inevitabile se non in certi versi sacrosanto – nel momento in cui questo porta beneficio ai contribuenti, sia chiaro – è altrettanto vero che deve essere fatto seguendo criteri ben precisi e stabilendo dei limiti. Lo scopo è duplice: da un lato lo Stato e quindi i cittadini devono poter beneficiare della ricchezza prodotta dal mercato e dall’altro quest’ultimo deve essere indipendente e libero di produrre tale ricchezza possibilmente nei limiti dell’etica.
Purtroppo però le cose non stanno così. Lo avevo già sottolineato in un precedente editoriale dedicato al nuovo “fondo sovrano” che il ministero dell’Economia e delle finanze si appresta a lanciare, e mi trovo a doverlo ripetere commentando il caso Amco.
Come è iniziata
Dunque, era il mese di luglio del 2017 e il Mef nominava Alessandro Rivera quale presidente e Marina Natale quale amministratrice delegata di quella che allora era nota come Sga cioè la bad bank nata nel 1989 per gestire i crediti deteriorati del Banco di Napoli. All’epoca la finanza italiana stava uscendo con fatica dalla di crisi del debito provocata dal crollo di Lehman Brothers nel 2008, arrivata da noi qualche anno dopo assumendo la forma dei tanto temuti non performing loans che riempivano i bilanci delle banche e ne minavano la stabilità. Era dunque urgente e necessario che ci fossero dei soggetti (vi ricordate il fondo Atlante o la mai nata bad bank europea?) in grado di assumersi il compito di dare un prezzo ai pacchetti di npls che le banche dovevano, volenti o nolenti, vendere e di recuperare il più possibile. In questo contesto, il mandato di Sga, e quindi del tandem Natale-Riviera, era di accollarsi e gestire i crediti “cattivi” delle banche venete, cioè Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza.
Quello era solo l’inizio. Circa due anni dopo infatti Sga diventava Asset management company (Amco), passa da 71 a oltre 200 dipendenti, da 2 a 23 miliardi di asset in gestione e amplia il raggio d’azione acquisendo non solo npls ma anche unlikely to pay. Amco viene utilizzata dallo Stato, che ne è unico e principale azionista, per intervenire in salvataggi come quelli di Banca Carige a quello di Monte dei Paschi di Siena fino a quello della Popolare di Bari. Una sorta di “spazzino” pubblico che nasce, cresce, corre e diventa un operatore di mercato. Negli anni poi la partecipata del Tesoro ha ampliato ulteriormente il proprio raggio d’azione, lavorando anche con controparti come Intesa Sanpaolo, Banco Bpm e Bper e lanciando progetti come ad esempio il Cuvèe, un fondo multi-originator per gestire i crediti Utp dell’immobiliare in collaborazione con Prelios e da ultimo il Progetto Glam, ossia l’attività di presa in carico da parte di Amco di un pacchetto di 12 miliardi di crediti garantiti dallo Stato durante la pandemia.
Come è proseguita
Oggi la società conta asset per 34,6 miliardi – circa la metà dei quali dati in gestione ad altri servicer – e 400 dipendenti ed effettivamente opera sul mercato. Qui però sta il problema: Amco non è un operatore di mercato. O meglio, non ne ha le caratteristiche intrinseche per esserlo perché è partecipata dallo Stato. Significherebbe che lo Stato stesso può essere operatore di mercato ed è evidente che non sia così. Il fatto che Amco non sia un operatore di mercato non è una cosa positiva o negativa di per sé, è soltanto una caratteristica che nasce dal fatto che è una partecipata pubblica, così come lo sono Cassa depositi e prestiti, il Fondo Italiano d’Investimento, Sace e il nuovo e fantomatico “fondo sovrano” quando verrà alla luce. È proprio per questa ragione, e per evitare distorsioni, che l’intervento pubblico dovrebbe essere circoscritto da regole ben precise.
Ad Amco dei limiti, dei criteri di intervento tali per cui non ci fosse il rischio di turbare il mercato, non sono mai stati posti. Ciò, come prevedibile, ha provocato non pochi mal di pancia agli operatori di mercato, quelli che veramente devono sottostare alle logiche del mercato, i quali non hanno perso occasione per accusare la società di aver offerto prezzi non competitivi grazie alle condizioni di finanziamento più favorevoli. Va detto che oggi questa condizione rende Amco forse uno dei pochi soggetti in grado di fare ancora acquisti sul mercato, dove circolano al momento circa 1,1 miliardi di pacchetti tra quelli messi in vendita da realtà come Iccrea, Alba Leasing e Mps e un altro miliardo dovrebbe arrivare dopo l’estate, e nonostante questo le aste le perde lo stesso, ma tant’è.
Come finirà?
Due giorni fa, nel consueto giro di poltrone che segue l’insediamento di un nuovo governo, l’esecutivo della premier Giorgia Meloni ha cambiato i vertici, indicando alla guida della tanto bistrattata Amco l’ex Bnl Andrea Munari e Giuseppe Maresca alla presidenza. Una decisione che aleggiava nell’aria perché, nonostante gli sforzi e i risultati raggiunti negli ultimi sei anni (o forse proprio per questi) Marina Natale era ormai considerata un personaggio se non scomodo sicuramente non abbastanza accomodante e non a caso sembra che il nuovo ceo dovrà “cambiare la rotta” – quante volte l’abbiamo letto in questi giorni? – della società.
Ma cambiare la rotta in che senso? Ci sono nuovi obiettivi o nuovi buchi da tappare? C’era qualcosa che la società non stava svolgendo correttamente o i conti non sono stati soddisfacenti? Sono aspetti che forse dovrebbero essere chiariti, non fosse altro perché Amco è una società a controllo pubblico. E fa sorridere che adesso, considerando proprio l’assenza di limiti di cui si parlava prima, se Amco è diventata ingombrante la “colpa” viene data al management, e in particolare a Natale, la quale di fatto si è limitata a svolgere (bene) il proprio lavoro. Ma se lo Stato tende a intervenire (male) sul mercato perché mosso dalla necessità o dall’urgenza o peggio ancora da interessi particolari o dalla propaganda, il problema è strutturale, non di un singolo manager.
Altra riflessione: quando intercettate, la professionalità e le competenze che si creano sul mercato privato dovrebbero essere una risorsa per il settore pubblico, non una seccatura o un ostacolo. Invece tante volte sembra che l’eccessiva efficienza del privato si scontri con un modo di fare che in certi casi sembra perennemente e inesorabilmente orientato al mantenimento dello status quo. Natale pare forse aver fatto troppo bene il suo lavoro (ribadisco: in assenza di paletti che dovevano essere definiti ai piani alti della catena) ed è riuscita a mettere in piedi dal nulla una società che sarebbe stata un ottimo operatore di mercato se non fosse stata a controllo pubblico. Ma che, purtroppo per tutti quanti, lo era.