C’è un problema – un altro, fra gli altri – che la finanza degli investimenti si troverà ad affrontare nei prossimi oscuri mesi che verranno: il costo del funding.
Il rialzo dei tassi, unito a un contesto macroeconomico in cui tutti i segnali indicano un imminente recessione, sta già influenzando l’attività delle banche riducendo la loro propensione al rischio mentre le incertezze scoraggiano le emissioni. E quando gli istituti di credito ridurranno il flusso di liquidità verso gli investitori, che sarà inevitabilmente a un prezzo meno conveniente, verrà a mancare l’effetto leva che muove gran parte delle operazioni di investimento, sia corporate sia real estate.
Nel primo semestre, se guardiamo ad esempio l’m&a, il mercato ha retto e i private equity da soli hanno pesato per oltre 6 miliardi sui 30 miliardi di volumi complessivi registrati da Kpmg. Tuttavia il problema, reale, riguarderà il 2023 più che la seconda parte dell’anno. Gli addetti ai lavori stanno già iniziando a percepire un rallentamento e la preoccupazione è palpabile.
Negli Stati Uniti, solitamente anticipatori dei trend che poi arriveranno in Italia, è già così al punto che, riportava un articolo di Bloomberg, il private debt è diventato più conveniente, con rendimenti tra il 5 e il 7% contro i 7-8% del public market.
Le ragioni sono molteplici: le banche sono avverse al rischio, il valore degli asset in portafoglio sta crollando mentre i private lender, forti della loro raccolta di 1,2 miliardi di dollari a livello globale, abbassano i rendimenti pur di investire il capitale. Inoltre, con la Federal Reserve che si affretta a inasprire la politica monetaria nel tentativo di domare l’inflazione, il rendimento medio delle obbligazioni spazzatura statunitensi è quasi raddoppiato mentre il mercato primario è stato praticamente congelato.
Fatto sta che da marzo il financing tramite bond high-yield ha raggiunto un costo implicito di circa il 9% negli Stati Uniti e dell’8,7% in Europa, secondo gli indicatori di Bloomberg che misurano il costo del nuovo debito con rating B singolo. Allo stesso tempo, i prestiti BB a leva, sempre negli Usa, stanno rendendo circa l’8,8% sul mercato secondario, secondo un indice JP Morgan.
Attualmente i prezzi dei cosiddetti prestiti unitranche – una mix di debito senior e subordinato e una struttura amata da soggetti non bancari – si aggirano tipicamente tra i 575 e i 650 punti base rispetto al tasso interbancario. Questo valore non si è mosso di molto, anche se i mercati sono scossi dai timori di recessione. Ed è così che la più grande operazione di direct lending in Europa, che ha coinvolto l’azienda britannica di software The Access Group, ha visto i lender applicare un margine a tasso variabile di soli 575 punti base per il finanziamento di 3,5 miliardi di sterline (oltre 4,3 miliardi di euro).
Sono cifre che danno la misura della situazione oltre confine. In Italia, tuttavia, il private lending è probabilmente ancora troppo piccolo per potersi posizionare come alternativa alla banca. E quindi il problema resta, per gli sponsor – carichi di liquidità ma comunque obbligati a includere del debito – e di riflesso anche per le imprese.