Il 5 maggio 2021 è mancato David Swensen (foto a sinistra), uno dei più grandi investitori dei nostri tempi. A capo dell’Investments Office dell’Università di Yale dal 1985 e fino alla sua morte, ha ideato un modello pionieristico e non convenzionale per la gestione dei fondi delle fondazioni universitarie – il cosiddetto endowment model – che ha portato Yale a generare rendimenti annualizzati del 10,9% nel decennio fino a giugno 2020, il migliore tra tutte le otto scuole della Ivy League, e del 9,9% annuo su 20 anni. Oggi Yale è la terza università più ricca del mondo, con una dotazione di 31,2 miliardi di dollari a giugno 2020.
Quando prese le redini degli investimenti a Yale, Swensen aveva 31 anni e l’endowment dell’università ammontava a un miliardo di dollari circa. Questi risultati straordinari sono dovuti all’intuizione semplice, ma per l’epoca rivoluzionaria, di Swensen: guardare oltre i mercati pubblici e gli investimenti tradizionali e aprire in maniera considerevole agli investimenti alternativi.
La filosofia di investimento di Yale è il cardine che portò l’università a rifiutare un approccio convenzionale nella costruzione del proprio portafoglio. Swensen amava a questo proposito citare e mettere in discussione la massima di John Maynard Keynes: “La saggezza del mondo insegna che è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale, anziché riuscire in modo anticonvenzionale”. Swensen, al contrario, costruì la sua anticonvenzionale filosofia di investimento intorno a quattro principi cardine basati sull’assunzione del rischio:
– investire in equity, in aziende sia pubbliche che private;
– diversificare, perché “per un dato livello di rendimento, se diversifichi puoi ottenere quel rendimento con un rischio inferiore. Per un dato livello di rischio, diversificando puoi ottenere un rendimento maggiore”;
– cercare opportunità in mercati meno efficienti;
– creare una squadra di advisor qualificati e dotati di grande autonomia che andassero alla ricerca dei migliori investimenti in giro per il mondo.
Quando la crisi finanziaria del 2008-2009 fece tracollare del 25% il valore dell’endowment di Yale, Swensen la prese con filosofia. Mentre molti, presi dal panico, si precipitarono a svendere i loro asset illiquidi, Yale comprò partecipazioni sul mercato secondario (e Swensen in seguito si rammaricò di non averne acquistate in numero maggiore).
Prendiamo in considerazione i due decenni 1994-2014: se Yale avesse adottato un approccio più conservativo e ottenuto i ritorni medi degli endowment delle università americane (9,2% per anno), invece che quelli effettivamente raggiunti (13,9%), alla fine di questo periodo avrebbe avuto nelle sue casse 20 miliardi di dollari in meno.
Swensen puntava a costruire relazioni durature con i fondi con cui lavorava: “Investiamo in organizzazioni che fondamentalmente costruiscono business migliori. Le competenze di ingegneria finanziaria sono una commodity, disponibili subito e a poco prezzo. L’esperienza operativa a valore aggiunto, invece, è una rarità (…). Cerchiamo team forti, coesi e affamati, con capacità provata di creare valore indipendentemente dai pubblici mercati”.
I rendimenti
Swensen fu un pioniere e aprì la strada agli investimenti alternativi che, per quanto oggi siano largamente diffusi, continuano a incontrare resistenze dovute alla convinzione che gli investimenti alternativi, e nello specifico gli investimenti in venture capital, siano intrinsecamente più rischiosi delle asset class tradizionali. Una ricerca del team di lavoro della Booth School of Business dell’Università di Chicago guidato dall’economista Steven Kaplan, pubblicata nel novembre 2020 dal National Bureau of Economic Research (NBER) statunitense e ben riassunta da Dan Malven su Venture Capital Journal, dimostra però che la sovraperformance dei fondi di venture capital è molto più ampiamente distribuita di quanto ritenuto in precedenza.
La ricerca ribalta uno dei capisaldi della narrativa intorno al settore del venture capital, ovvero che la performance del primo quartile sia guidata dal primo 5% dei fondi all’interno dello stesso. I dati raccolti, dimostrano che la metà di tutti i fondi di venture capital lanciati tra il 2009 e il 2017 ha generato rendimenti per gli investitori oltre gli equivalenti del mercato pubblico (PME) sia dell’indice S&P 500 che dell’indice Russell 2000, al netto di tutte le commissioni di gestione e di performance.
Il convenzionale 5% dei fondi di venture che si rivelano buoni investimenti va quindi rivisto di un intero ordine di grandezza. Almeno il 50% dei fondi genera buoni ritorni per gli investitori. Questo in base ai dati raccolti fino al 30 giugno del 2020: considerando le numerosissime operazioni di IPO e SPAC effettuate negli scorsi mesi dai fondi di venture con vintage 2009-2017, la percentuale non potrà che salire, e verosimilmente raggiungere il 75%.
Allo stesso tempo, il paper di Booth riconferma un altro caposaldo, riconducibile al principio di Pareto: all’interno di un fondo, il 20% delle aziende investite genera l’80% dei rendimenti. Emerge quindi chiaramente che gli investimenti di venture capital sono rischiosi se considerati singolarmente, ma redditizi a livello di portafoglio.
Tutti i dati portano alla conclusione che il venture genera rendimenti migliori dei pubblici mercati. Quanto migliori? Questo dato può variare dal 10% al 110% e dipende dai vintage years specifici, determinati sulla base del momento in cui il fondo effettua il suo primo investimento. La strategia più saggia consiste senz’altro nel distribuire gli investimenti e continuare ad investire nell’investire con costanza nei vari vintage years limitando i rischi attraverso la diversificazione affidandosi ai gestori migliori.
I dati mostrano che aumentare l’allocazione in investimenti alternativi è cruciale per incrementare i rendimenti e conseguire i propri obiettivi di investimento, soprattutto in un momento storico come questo in cui la capitalizzazione dell’industria del Venture Capital rimane medio-bassa, tra il 0,10 e il 0,15% della capitalizzazione totale del mercato azionario.
Se oggi c’è consapevolezza delle potenzialità di un atteggiamento anticonvenzionale alla gestione del rischio, diversificato rispetto alle asset class tradizionali e decorrelato dai cicli economici, lo dobbiamo anche a David Swensen. Un investitore visionario che, alla capacità di selezionare i migliori gestori indipendenti, univa la pazienza, il coraggio e la costanza di guardare lontano.
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