Come ogni anno, con Dealflower partecipiamo con piacere all’Ipem, la due giorni organizzata in questo periodo a Cannes che riunisce i player europei del private capital – equity, venture e debito – per fare il punto sul mercato e contattare chi di interesse.
Come ogni anno non posso fare a meno di constatare quanto il mercato italiano sia contenuto rispetto agli altri d’Europa, sia in termini di volumi e valori sia di numerosità e grandezza dei soggetti che svolgono questa professione. Ma è un bene un male?
Facciamo un passo alla volta. Intanto, questi grafici spiegano bene la situazione.
Il primo viene da un interessante rapporto di Invest Europe, l’associazione europea dei fondi di private capital, su dati 2022 (un anno particolarmente positivo per il settore) che in questo report ha analizzato l’attività dei fondi di buyout in Ue da diversi punti di vista, anche in relazione al Pil.
In questo grafico ci sono tutti gli investimenti divisi per regione. L’Italia viene considerata nella massa indistinta chiamata sud Europa.
Quest’altro grafico viene invece da un report di PwC Germania ed entra più nel dettaglio dei singoli paesi.
Dai numeri, più che dalle parole, emerge chiaramente la dimensione del comparto nel nostro Paese. Dimensione che in dieci anni che mi occupo di private capital è rimasta più o meno invariata. Alcuni fondi nuovi sono nati ma nessuno ha mai veramente fatto il salto di qualità e la size media (250-300 milioni) resta mediamente contenuta se non in alcuni casi.
Le ragioni dietro al “nanismo” del pc italiano le conosciamo bene. Anzi, c’è una ragione prima di tutto: il basso – se non nullo in alcuni casi – interesse di assicurazioni, fondi pensione, casse di previdenza e altri istituzionali a investire nel settore. Ho più volte affrontato la questione e cercato di capire dove sono i nodi che impediscono un sano e virtuoso flusso di risorse tra chi raccoglie il risparmio dei lavoratori e chi investe in aziende che se crescono assumono più lavoratori che quindi risparmiano e così via, ma non voglio ripetermi.
Ciò su cui vorrei ragionare è se questa situazione di fatto vada bene oppure no.
Mi spiego. Le imprese italiane sono per il 98% piccole e medie imprese, che quindi hanno in generale meno di 250 addetti e un fatturato sui 50 milioni di euro. Viene da sé che i ticket di investimento non possono essere enormi e di conseguenza neanche i fondi che vanno a investire in queste realtà.
Per qualcuno quindi la size dei fondi italiani deve restare – o è destinata a restare – contenuta proprio in virtù delle caratteristiche del nostro tessuto imprenditoriale.
Affermazione condivisibile che però secondo me non esclude anche la necessità di una crescita dei gestori italiani e l’importanza di avere player rilevati a livello europeo (per non allargarci oltre). Tranne che in alcuni casi (vedi Investindustrial o per certi versi Ambienta) sono pochissimi poi quelli che investono fuori dall’Italia. Avremo mai un Ardian o un Apax italiani? Con questo sistema attuale la risposta è no. O se emergeranno saranno appunto casi specifici, pochissime realtà, che denotano una capacità elevata dei gestori a crescere più che un ecosistema favorevole.
Qui la palla passerebbe ai regolatori, alla politica. L’esempio francese di rilancio del venture capital lo conosciamo tutti, mentre in Italia questi temi non sono all’ordine del giorno e i fondi già stanziati vengono spostati in nuovi veicoli dalla dubbia utilità (vedi il Fondo sovrano nazionale). Che sia per disinteresse o ignoranza (nel senso di non conoscenza) della nostra classe politica è difficile dirlo, ciò che è certo è che un’industria che potrebbe essere rilevante a livello europeo – perché di competenza i gestori italiani ce l’hanno eccome – non lo è. Resta ferma, come tante cose nel nostro bello quanto sfortunato paese.