Uno degli aspetti più belli e affascinanti del mio mestiere di giornalista è che ci si imbatte in tante storie. Una delle ultime storie che mi ha più colpita è quella di Carlo Erba e della sua Docebo, ascoltata durante un evento organizzato da LVenture. La società made in Brianza è stata fra le prime, a partire dal 2005, a occuparsi di e-learning e a farlo anche tramite intelligenza artificiale: l’idea ha avuto talmente successo che oggi Docebo è una società quotata sia al Nasdaq – dove vale 1 miliardo di dollari – sia alla Borsa di Toronto, conta sei uffici in tutto il mondo e oltre 700 dipendenti.
Perché è una storia interessante? Perché Docebo era una startup. Avrebbe potuto essere uno dei primi unicorni italiani ma quella opportunità lì il nostro mercato se l’è fatta scappare perché Erba e i suoi hanno visto (giustamente) maggiori occasioni all’estero.
Non è l’unico caso, a ben vedere. In passato avevo ragionato ad esempio sul round da quasi 500 milioni di dollari di Scalapay che lo ha reso un unicorno e al quale neanche un venture italiano ha partecipato. Un problema c’è e credere che sia legato solo e soltanto alla capacità degli investitori italiani è piuttosto fuorviante. Il problema è che nel venture capital in Italia ci si crede ancora troppo poco, a partire dalla politica, e non riusciamo a vedere quanto tangibili per la nostra economia siano poi gli effetti di un mercato che di fatto investe sull’innovazione quella vera, sulla ricerca, sullo sviluppo e sulla messa a terra di soluzioni alcune potenzialmente distruttive.
Il mercato dal canto suo prova a crescere, a consolidarsi, a strutturarsi. Dal dopo-pandemia il settore è cresciuto notevolmente anche in termini numerici e solo lo scorso anno valeva un giro d’affari di 9,5 miliardi di euro (per fare una comparazione, il mercato del vino smuove ogni anno poco più di 14 miliardi). Tuttavia, resta ancora un comparto di nicchia, vittima del disinteresse generale, a partire da quello della politica. Per quanto il ritardo con cui l’Italia sta facendo evolvere questo settore non sia riconducibile solo a scelte politiche, è evidente che una politica industriale che fosse stata improntata sull’innovazione avrebbe fatto un minimo di differenza in questi anni.
Tale ragionamento si inserisce in un contesto in cui l’attuale governo sembra avere l’intenzione di spostare alcune delle risorse destinate a Cdp Venture Capital, il veicolo di Cassa depositi e prestiti dedicato a questo mercato, per trasferirle al nuovo Fondo Made in Italy, che stando ai piani investirà in piccole e medie imprese. Una scelta che rende evidente quanto l’investimento in attività imprenditoriali, medie, piccole o startup che siano, sia considerato dalla classe politica – non solo quella attualmente al potere – qualcosa di marginale, per certi versi sacrificabile, e non altamente strategico per lo sviluppo del paese.
Il grave errore che pagheremo amaramente è proprio questo, non riuscire a vedere quanto il fare impresa e soprattutto il fare impresa in modo innovativo siano essenziali per restare competitivi a livello economico. L’esempio di Docebo ci dimostra come avremmo potuto avere quotata in Italia un’azienda dal successo internazionale e come questa anche tante altre. Ma se non puntiamo davvero sull’innovazione, con la volontà di farla sviluppare per integrarla nell’esistente e quindi progredire, resteremo dove siamo mentre il mondo va avanti. E in effetti questo è uno dei problemi culturali del nostro paese: ci piace mantenere lo status quo. Così il venture capital resta un settore per ragazzini in felpa e cappuccio e per investitori un po’ pazzi mentre la politica preferisce blindare mercati come quello balneare o del trasporto privato (taxi).
Quale futuro quindi per il venture capital in Italia? Con i tempi bui che stanno arrivando c’è chi ne ha decretato la fine, per qualcun altro la strada è ormai tracciata e la crescita ci sarà seppur lentamente. Certo è che finché l’investimento in innovazione non sarà considerato da tutti prioritario il venture capital non progredirà. E tanti saluti alle Docebo del futuro.