Mentre a Bruxelles i rappresentanti dei paesi europei portano avanti una battaglia, soprattutto politica, sulla definizione di quale fonte energetica sia green oppure no, in Italia l’aumento del costo dell’energia continua a preoccupare, e parecchio. Tanto che da giorni anche Confindustria sta lanciando un grido di allarme: per le imprese la spesa per l’energia rischia di passare dagli 8 miliardi del 219 a 37 miliardi nel 2022, è la stima.

Produrre più energia per l’Italia è ormai una necessità. Ma su quale fonte concentrare gli sforzi? Rinnovabili? Gas? Oppure il nucleare? Per scegliere bisognerebbe capire come siamo messi a livello di infrastrutture e investimenti su ognuno di questi fronti. E le risposte non sono delle migliori.

Rinnovabili e burocrazia

Le energie rinnovabili, cioè eolico e fotovoltaico, dovranno in futuro ricoprire un ruolo molto più importante di quello che ricoprono adesso. Oggi l’Italia produce 115 gigawatt di energia dei  quali 56 GW da rinnovabili. In sede Pniec (Piano Nazionale Integrato Energia Clima) nel 2020 ci siamo dati l’obiettivo di accrescere questa quota stabilendo che entro il 2030 dobbiamo produrre altri 70 gigawatt da fonti rinnovabili. Oggi ne facciamo meno di un gigawatt all’anno (0,8 GW), poco più di un decimo di quanto dovremmo produrne.

Obiettivo impossibile, dunque? Non proprio. Come spiega Eugenio Tranchino (nella foto), partner di Watson Farley & Williams, “a oggi le energie rinnovabili non sono sviluppate nella pienezza delle proprie potenzialità soprattutto per un tema di autorizzazioni a livello regionale che non arrivano e quindi non consentono di mettere a terra gli impianti”. La società della rete elettrica nazionale Terna ha comunicato che a fine ottobre scorso le erano pervenute richieste di connessione di nuovi impianti (eolici e solari) pari a circa 95 GW, spiega l’avvocato. Terna ha anche già dato il parere positivo all’allaccio alla rete elettrica per la maggior parte degli impianti proposti: l’85% (circa 110 GW) per l’on shore e il 75% (circa 17 GW) off shore. Tuttavia di queste richieste ben poco è stato portato avanti in quanto, stima un report di Legambiente, i tempi medi per l’autorizzazione alla realizzazione di un impianto eolico si attestano intorno ai cinque anni, contro i sei mesi previsti dalla normativa. “Il problema sta nella doppia autorizzazione necessaria a livello centrale e locale: le regioni sono venti, ognuna ha la competenza di autorizzare gli impianti ma spesso per motivi politici o burocratici queste autorizzazioni non vengono emesse”. Solo in Puglia, riportava il Corriere della Sera, 396 impianti sono fermi da otto anni mentre nel Lazio ne sono 126, per 2,2 miliardi di investimenti.

Il governo di Mario Draghi sta provando a centralizzare questi poteri e nel decreto Semplificazioni bis ha ridotto tempi e passaggi di approvazione degli impianti portando da 1200 a 300 giorni l’iter autorizzativo. Tuttavia questo non è l’unico problema per le rinnovabili. “In quanto energie non programmabili e vincolate alle condizioni atmosferiche – osserva Tranchino –  per sfruttare a pieno questo tipo di risorse è necessario costruire nuovi impianti di stoccaggio” che però sono costosi e poco attrattivi per gli investitori e gli operatori del settore. “I problemi tecnologici e di costo sottostanti alle rinnovabili non vanno sottovalutati ma nonostante le difficoltà le rinnovabili restano la fonte pulita più adatta al nostro Paese”, dice. E alla quale vengono dedicate anche importanti risorse del Pnrr. In particolare alla “Componente 2” cioè energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile vengono destinati 23,78 miliardi di euro di cui 5,90 (il 24,8%) per incrementare la quota di energia prodotta da fonti di energia rinnovabile.

Nucleare impossibile

Le alternative, d’altronde, sono poche. Il gas resta un’energia pulita ma molto suscettibile agli equilibri geopolitici mentre il nucleare, tornato agli onori di cronaca per via della proposta della Commissione Ue di considerala una fonte pulita di transizione, presenta non poche difficoltà: ripristinarlo, dopo anni di (tentato) smantellamento sarebbe infatti quasi impossibile. “Il nucleare richiede tecnologie e competenze altamente specifiche, è un settore che non ammette errori, – sottolinea Tranchino – ma queste sono state smantellate in Italia dal 1987 e difficilmente si potranno recuperare in tempi rapidi”.

In Italia tra il 1963 e il 1990 sono state attive quattro centrali, poi progressivamente disattivate dopo il referendum abrogativo del 1987, sulla scia del disastro di Chernobyl avvenuto in Unione sovietica l’anno precedente. Tre sono state costruite – per una spesa di 10 miliardi – ma mai attivate. Negli anni successivi il dibattito sul nucleare è tornato alla ribalta e ad esempio un decreto-legge del 2008 del quarto governo Berlusconi prevedeva la realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare. Decreto mai passato e formalmente deceduto dopo un secondo referendum, nel 2011, che ha definitivamente messo una pietra sopra questo tipo di energia, così come fece la Germania e altri Paesi europei dopo il disastroso incidente nucleare di Fukushima, in Giappone.

Nonostante siano passati 30 anni non tutti gli impianti sono stati effettivamente smantellati e ne le scorie radioattive smaltite. La società che se ne doveva occupare, la Sogin, istituita nel 1999, è stata commissariata proprio la scorsa settimana dopo essere costata 7,9 miliardi e aver completato solo il 30% dei lavori senza aver sfiorato nemmeno un reattore. La previsione della loro conclusione è stimata al 2036 mentre nel frattempo non si sa ancora dove collocare il Deposito nazionale, la cui creazione è stata sancita nel 2000, che dovrebbe contenere le scorie radioattive da smaltire che intanto vanno in Regno Unito a spese dei contribuenti italiani.

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