Un territorio tanto lontano quanto strategico per gli affari delle aziende italiane. Il Kazakistan è da una settimana al centro di violente rivolte – che hanno provocato almeno 164 morti e oltre 5mila arresti – scatenate da un raddoppio del prezzo del gas dopo che il governo ha liberalizzato a partire da gennaio il prezzo del gpl, combustibile largamente usato dalla popolazione kazaka (oltre 18 milioni di abitanti).
Una goccia che ha fatto traboccare il fatidico vaso già pieno di diseguaglianze sociali, mancanza di democrazia, deprezzamento della valuta nazionale – il tenge – con il conseguente aumento dei default sui mutui. La situazione economica del Kazakistan è poi resa più complessa dall’inflazione: alla fine del 2021 il tasso su base annua era del 9%, il livello più alto dagli ultimi cinque anni e nel contempo la banca centrale ha alzato i tassi di interesse al 9,75%.
Il Kazakistan però non è un paese dell’Asia centrale come quelli che si possono immaginare. Con una produzione del 3% del petrolio mondiale il Paese, dice la Farnesina, è tra i 15 più grandi produttori dell’oro nero e tra i primi 12 per riserve, per un ammontare di oltre 80 milioni di tonnellate. Il Kazakistan ha inoltre 1,5 trilioni di metri cubi di riserve di gas, posizionandolo tra i primi 15 al mondo per riserve.
Il giro d’affari con l’Italia
Materie prime che interessano a tutti, anche all’Italia, che con il Kazakistan “è legato da rapporti di amicizia e da un solido partenariato economico”, recitava una nota del ministero degli Esteri il 6 gennaio scorso. In effetti l’Italia, oltre a essere è stato tra i primi in Occidente a riconoscere la neonata Repubblica del Kazakhstan all’indomani dell’indipendenza dall’Urss il 16 dicembre 1991, è anche al terzo posto nel 2019 tra i partner commerciali del Paese dopo Russia e Cina e il primo in Europa, stando ai dati divulgati dall’Istituto Nazionale di Statistica kazako.
L’Ice ha rilevato che nel 2019, prima dello scoppio della pandemia, le esportazioni italiane verso il Kazakistan valevano 1,088 miliardi di euro, in lieve crescita rispetto all’anno precedente (1086,3 milioni) mentre le importazioni avevano raggiunto quota 2,11 miliardi. Per fare una comparazione, l’export con gli altri paesi “-stan” dell’area cioè Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan è pari rispettivamente a 31,3 milioni, 53 milioni e 312 milioni. Per la Farnesina, l’Italia è il 2° mercato di destinazione dell’export del Paese con una quota di mercato del 13,4% nel periodo gennaio-maggio 2021.
Tuttavia la crisi provocata dalla pandemia da Covid-19 ha fatto precipitare, come in altri ambiti, gli scambi commerciali: nel 2020 l’export italiano è stato pari a 565,4 milioni (-48%) mentre l’import è sceso a 1,2 miliardi, e nel periodo gennaio-settembre 2021 è arrivato a 362,3 milioni a fronte di 803 milioni di euro di importazioni. Parliamo, soprattutto di materie prime come petrolio greggio (1,8 miliardi nel 2019, 517 milioni nei primi nove mesi del 2021) e metalli di base preziosi e altri metalli non ferrosi; combustibili nucleari (110 milioni nel 2019, 199 da gennaio a settembre 2021).
E cosa esportiamo nel paese? Macchinari agricoli, principalmente, ma anche la moda made in Italy, che tra abbigliamento e calzature esportate genera valore per circa 50 milioni.
Da Eni a Iveco e Ferrero
Rilevanti sono anche gli investimenti: secondo gli ultimi dati disponibili dell’Ice, nel 2019 gli investimenti italiani nella regione sono stati pari a 671 milioni di euro, trainati, poco sorprendentemente, dal comparto oil & gas.
Non a caso Eni è fra le principali aziende italiane operanti in Kazakistan dove è presente dal 1992 nei comparti degli idrocarburi e nelle energie rinnovabili: nel 2020, stando a quanto si legge nel sito dell’azienda, il gruppo ha prodotto 40 milioni di barili di petrolio e condensati e 2,9 miliardi di metri cubi di gas mentre disponeva di 48 megawatt di capacità eolica installata e di 50 MW di capacità solare sul territorio.
L’azienda è fra le altre cose co-operatore del giacimento in produzione di Karachaganak, per una quota del 29,25%, che lo scorso anno ha prodotto 239mila barili al giorno di idrocarburi liquidi e 27 milioni di metri cubi al giorno di gas naturale e fa parte del consorzio North Caspian Sea Psa. Nel 2018 l’azienda è diventata anche operatore congiunto nel blocco esplorativo di Isatay con Kmg, la compagnia energetica statale kazaka KazMunayGas. A luglio 2019, quest’ultima assieme a Eni e al ministero dell’Energia del Kazakhstan hanno sottoscritto un accordo per l’esplorazione e la produzione di idrocarburi nel Blocco di Abay, facendo dell’IOC la prima joint venture a detenere due licenze nel Paese.
Nel 2020 le attività di sviluppo del giacimento Kashagan (Eni 16,81%) si sono focalizzate sul programma di espansione per fasi della capacità produttiva. La prima fase di sviluppo prevede un progressivo aumento fino a raggiungere i 450 mila barili di olio al giorno.
Oltre a Eni, secondo i dati dell’Ambasciata d’Italia a Nur-Sultan, sono attualmente circa 250 le aziende e le joint venture a capitale italiano che operano nel Paese. Fra i brand più noti ci sono ad esempio Technogym, Ferrero, che nella ex capitale Almaty conta 31 dipendenti in uno stabilimento produttivo e genera vendite per oltre 4 milioni di dollari, Fidia Pharma, Iveco, che si è stabilita nel Paese con delle linee di assemblaggio dei veicoli commerciali. Presenti poi le aziende dell’indotto del petrolio come Saipem, Valvitalia, Tenaris ma anche nelle infrastrutture e servizi (Renco), e nel transporto-logistica come Savino del Bene.
Rilevanti anche gli interessi del Gruppo Todini-Salini-Impregilo, presente in Kazakistan con la Todini dal 2000 e oggi impegnata nella realizzazione di vari tratti del corridoio stradale Europa Occidentale – Cina Occidentale ed in altre opere viarie nel Paese. Dal 2016, tra l’altro, gli assets della Todini sono stati acquisiti da un investitore kazako.
Nuovi business
Il futuro economico del paese potrà passare, una volta terminata questa terribile rivolta, dalle criptovalute. In Kazakistan negli ultimi mesi si sono infatti rifugiati molti dei minatori (miner, cercatori di criptovalute) cacciati dalla Cina con la stretta sulle crypto: sono 90mila le società di crypto-mining sul territorio, il 18% circa del mercato globale.
Uno dei più grandi complessi minerari di Bitcoin al mondo si trova vicino alla città di Ekibastuz, a circa 300 chilometri da Astana-Nur Sultan: otto hangar, riempiti da circa 50.000 miners alimentati direttamente dalla locale centrale a carbone che però consuma come una città di circa 100mila persone. Il mining di Bitcoin è infatti un attività particolarmente energivora e potrebbe essere stata anch’essa una delle cause dell’aumento dei prezzi dell’energia.