Sul tavolo del Consiglio dei Ministri dopo la pausa estiva arriva la bozza del decreto legge cosiddetto anti delocalizzazioni che vuole introdurre importanti misure per le imprese con almeno 250 dipendenti a tempo indeterminato che intendano procedere alla chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione dell’attività, a fronte di ragioni non necessariamente legate squilibrio economico-finanziario. Dopo i casi Whirlpool e Gkn, l’idea è quella di provare a smussare varie rigidità. Rispetto alla prima bozza circolata che prevedeva 5 articoli, oggi non si farebbe più cenno alle multe fino al 2% del fatturato dell’ultimo esercizio e all’inserimento in una black list che vieta per 3 anni l’accesso a finanziamenti o incentivi pubblici.
“Il nostro obiettivo non è colpire le ristrutturazioni tout court. Non vogliamo colpevolizzare chi fa turnaround perché deve passare a modelli produttivi diversi, non abbiamo di certo in testa imprese che vivano di sussidi. La competitività è l’obiettivo, ma atteggiamenti puramente speculativi non sono più accettabili. Chi non è in crisi e vuole tagliare, può farlo. Ma dovrà seguire un percorso ordinato, che coinvolga le parti sociali e favorisca l’arrivo di nuovi imprenditori“, aveva commentato la viceministra dello sviluppo economico Alessandra Todde in agosto. Tuttavia il provvedimento che vuole affrontare l’attrattività e la stabilizzazione della localizzazione delle imprese resta divisivo. Secondo alcuni, infatti, potrebbe scoraggiare le grandi industrie estere dall’investire in Italia, mentre per altri è la giusta strada da intraprendere per chi usufruisce anche di incentivi pubblici per poi chiudere e licenziare i dipendenti. Abbiamo fatto il punto con due legali.
Fra dubbi e opportunità
“La norma mira a gestire comportamenti opportunistici di quelle aziende che, anche se in buona salute, decidono di chiudere stabilimenti sul nostro territorio a vantaggio di soluzioni più economiche all’estero. La norma si applicherebbe alle unità aziendali che occupano un numero significativo di lavoratori“, spiega a Dealflower Giorgio Mariani, head of corporate and m&a di Deloitte Legal Italia (nella foto a sinistra). “Accolgo con favore l’ipotesi di un percorso di mitigazione delle ricadute occupazionali e di conservazione del patrimonio produttivo, che mi sembra coerente con il profilo di responsabilità sociale che il mercato si aspetta da aziende di certe dimensioni“. Al momento si prevede l’obbligo di presentare un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura del sito produttivo presso il Mise nonché all’obbligo di informare del progetto di chiusura del sito produttivo il Ministero del Lavoro, il Ministero dello Sviluppo Economico, l’Anpal e la Regione nel cui territorio è ubicato il sito da chiudere.
Non è dello stesso parere l’avvocato Wolf Michael Kühne, Country Managing Partner di DLA Piper (nella foto a destra) che a Dealflower dichiara: “La bozza presenta diverse criticità, sia dal punto di vista strettamente tecnico sia da quello più strategico. Sul piano tecnico, la bozza di decreto legge circolata in questi giorni contiene misure di dubbia costituzionalità – quali le sanzioni previste in capo alle aziende che presentano un ‘piano’ che non viene approvato dal Ministero – e di difficile applicazione concreta”. Va poi ricordato che la prima bozza circolata prevedeva, per chi ha ricevuto contributi pubblici nazionali nei tre-cinque anni precedenti e intendesse procedere alla chiusura volontaria violando il diritto di allerta, una sanzione pari al 2% del fatturato dell’ultimo esercizio. Una misura aspramente criticata anche da Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, che ha parlato di logica punitiva del dl.
Attualmente, la bozza stabilisce anche obblighi di informazione preventiva da parte dell’impresa. In realtà, “la legge prevede già una procedura di licenziamento collettivo che, in base alla bozza di decreto, potrebbe essere avviata solo a seguito della presentazione al MISE di un piano di mitigazione. Tale piano verrebbe quindi discusso con la partecipazione di altri stakeholders, tra cui le organizzazioni sindacali, secondo una procedura che durerebbe fino a 90 giorni. Si potrebbe immaginare di coordinare le due procedure: piano di mitigazione e licenziamento collettivo“, prosegue Mariani. “Di certo, è legittimo che il Governo si preoccupi di tutelare la continuità produttiva di imprese che non sono in crisi, così come è importante prevenire fenomeni come quello delle chiusure immediate: ma non si può pensare di farlo con improbabili black list e sanzioni draconiane gestite da funzionari ministeriali”, fa invece notare Kühne.
Se, secondo varie analisi, la normativa andrebbe nella direzione di scoraggiare il trasferimento, spesso legato a una concorrenza al ribasso anche lato giuridico e fiscale, “sul piano strategico, il provvedimento rischia di avere un effetto opposto rispetto a quello sperato: invece di “trattenere” le imprese nel nostro Paese, può disincentivare gli imprenditori a investire in un sistema normativo così soffocante”, continua Kühne. Di tutt’altro avviso l’avvocato Mariani: “non credo che questa norma avrà un impatto negativo sull’attrattività del paese rispetto agli investimenti dall’estero. Se una multinazionale decide di investire in Italia non lo fa con l’obiettivo di andarsene. Secondo la bozza, inoltre, il piano di mitigazione deve illustrare “le prospettive di cessione dell’azienda o dei compendi aziendali con finalità di continuazione dell’attività”. Questo spunto potrebbe, secondo l’avvocato, anche alimentare operazioni di m&a e di restructuring.