Chi lavora in ambito m&a in Italia vive una sbronza che dura almeno dal 2019, se non da prima. Sono anni infatti che il comparto cresce, in un imperituro ciclo positivo che ha visto il moltiplicarsi delle operazioni, l’innalzamento i valori e l’aumento dei multipli, fino a toccare i livelli record dello scorso anno. Nel 2022 poi in pipeline c’erano deal per 40 miliardi di euro, segnalava un ancora ignaro Kpmg a inizio anno. Ora però la paura è di ritrovarsi con un grandissimo dopo sbronza – o hangover come dicono i paesi anglofoni – alla quale non ci sarà aspirina che tenga.

Andiamo con ordine. Allo stato attuale delle cose, è il sentimento comune, è difficile fare previsioni. La guerra prosegue ormai da 15 giorni e non sembrano esserci spiragli per un accordo tra le parti coinvolte, la Russia e l’Ucraina. Per molti osservatori il mercato delle fusioni e acquisizioni soffre più le crisi finanziarie di quelle industriali, come sembra essere quella in corso e per questo non dovrebbero esserci scossoni particolari, al massimo un rallentamento. Ma non facciamoci illusioni. Le operazioni stanno già saltando. Saltano quelle che vedevano coinvolte aziende molto esposte in Russia e in Ucraina, saltano quelle riguardanti imprese grandi consumatrici di energia o di materie prime e saltano anche deal che nulla avevano a che vedere con la crisi, forse per l’incertezza diffusa o per paura.

Come interpretare allora l’attuale situazione? Partendo da alcuni punti fermi.

Il primo è che questa crisi è diversa da quella della pandemia da Covid-19, anche per l’m&a. Il virus infatti aveva sostanzialmente stoppato il mercato solo nei primi mesi di pandemia, quelli più difficili di marzo – aprile 2020, e poi era stato integrato nella valutazione del rischio. In questo caso gli effetti sulle imprese sono molto più ampi e generalizzati del Covid-19. Quest’ultimo – o meglio il lockdown conseguente – aveva penalizzato le imprese del settore retail e consumer e poche altre. La crisi Ucraina, con il rialzo dei prezzi di energia e materie prime, sta minando le fondamenta di tutte le imprese industriali e manifatturiere e quindi di svariate filiere produttive. Certo, molto dipenderà dal settore. In ogni guerra, in ogni crisi, ci sono vincitori e vinti e anche fra le imprese vige la stessa regola. Tuttavia in questo caso anche se si ferma una sola azienda comunque l’effetto si sentirà su tutte quelle altre che da lei si rifornivano o che l’avevano come cliente. È una questione che non va sottovalutata anche poi nell’inevitabile futura revisione delle valutazioni.

Il secondo punto fermo e rassicurante è la liquidità. La crisi, fortunatamente, non l’ha spazzata via – perlomeno quella destinata al private market. E questa liquidità è ancora pronta a finire alle imprese. Dall’altro lato, il mondo corporate grande e piccolo/medio ha e continuerà ad avere molta fame di risorse per sostenere la difficoltà del momento. L’unione tra le due correnti è ancora possibile e forse, al netto di una valutazione dei rischi più complessa, potrebbero vedere luce più operazioni di minoranza che consentono di prezzare in parte il rischio in attesa che si calmino le acque.

Un terzo aspetto da considerare è il ruolo delle banche. Qui navighiamo in acque incerte ma è bene riflettere anche su questo. Le banche ora vivono una situazione difficile, in Borsa subiscono i timori del momento, e se casomai dovessero decidere di limitare i finanziamenti questo sarebbe un problema per il private equity. Per quanto in sviluppo (ne parleremo in questo evento) il private debt da solo non potrà sostenere tutte le operazioni e un’eventuale stop delle banche si rifletterebbe a cascata sul settore.

Non va poi dimenticato che il ciclo positivo durava da molto tempo e che sarebbe stata questione di poco tempo prima di vedere la tendenza invertirsi. Anche perché ci sono altri ospiti scomodi – vedi l’inflazione – che stavano per rovinare la festa dell’m&a come un qualsiasi Gep Gambardella. L’importante, in questa fase, è esserne consci e prepararsi.

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