Si avvicina forse la parola fine nella travagliata storia di Banca Monte dei Paschi di Siena e non è un epilogo felice. È triste, infatti, vedere la fine che ha fatto, e che dovrebbe fare, una banca fra le più antiche -forse la più antica – del mondo, che ebbe origine nel 1472, come “Monte Pio”, per volere delle Magistrature della Repubblica di Siena e che fu espressamente istituita per dare aiuto alle classi più disagiate della popolazione in un momento particolarmente difficile per l’economia locale (almeno così recita il sito ufficiale).

La sua attività, in ideale prosecuzione delle grandi tradizioni commerciali e creditizie della città di Siena, ebbe una rapida evoluzione in senso tipicamente bancario, specie a seguito delle riforme del 1568 e del 1624.

Nelle prime tre decadi del ‘900 la banca è cresciuta uscendo dai confini delle due province tradizionali e ha iniziato a operare in un crescente numero di regioni (apre le filiali di Empoli, Firenze, Perugia, Napoli e Roma) per poi spingersi, a metà del secolo scorso, all’estero. New York, Singapore, Francoforte, Londra. Negli anni poi diversifica la sua attività, apre al bancassurance, anche qui da pioniera, e negli anni ’90 è quarta banca del Paese per raccolta.

Nel 1995, con un decreto del Tesoro, Mps si scinde in due entità distinte dando vita ai soggetti che conosciamo oggi, Banca Monte dei Paschi di Siena Spa da un lato e la Fondazione Monte dei Paschi di Siena che detiene la maggioranza delle azioni della Spa. Lo sbarco in Borsa della banca avviene il 25 giugno 1999. L’IPO ottiene una domanda 10 volte superiore all’offerta e in breve tempo la società ottiene da tutte le agenzie di rating la tripla A del proprio merito creditizio.

Una bella storia. Che però nasconde gli incubi dell’ingerenza politica, del malaffare, del provincialismo e dell’ignavia manageriale.

Dagli anni 2000 la Banca e la Fondazione sono state utilizzate dalla politica come strumento di controllo del territorio nonché di snodo del sistema di potere dei partiti. E le ambizioni espansionistiche si sono scontrate con l’effettiva capacità della banca. Emblematica è l’acquisizione nel 2007 della Banca Antonveneta con una valutazione totalmente fuori mercato, 9 miliardi di euro, che il Monte non poteva permettersi.

Poi è arrivata la crisi del 2008-2010, facendo venire al pettine tutti i nodi intrecciati anno dopo anno e in particolare la temerarietà – per usare un eufemismo – di operazioni come quelle sui derivati.

Vale la pena fare un recap. I derivati sono stati contratti tra il 2002 e il 2006, prima dell’acquisizione di Antonveneta. Prima Santorini, stipulato con Deutsche Bank e legato alle azioni di Intesa Sanpaolo, di cui Mps era azionista. Poi Alexandria, realizzato con la Dresner Bank, un cdo (Collateralized Dept Obbligation) che cartolarizza dei mutui. Nel 2006 arriva il terzo derivato, Nota Italia, contratto con Jp Morgan e che riguarda un CDS (Credit Default Swap) sull’Italia. Investimenti che poi si riveleranno un suicidio. Il crollo azionario in Borsa delle azioni Intesa dovuto alla crisi dei mutui subprime del 2008 provoca un buco di 360 milioni di euro poi lievitato a 570 milioni. Le rate dei mutui saltano e fanno emergere tutte le crepe di Alexandria, che perde rapidamente il 30% del suo valore, causando una voragine nel bilancio di Mps di 220 milioni di euro.

In tutto questo si inserisce anche la brutta vicenda dei prestiti “baciati”, erogati in cambio di favori.

Le conseguenze di queste azioni sulla Banca hanno dei valori ben precisi: dal 1999 a oggi il titolo in Borsa ha perso il 100% del proprio valore ed è stato sospeso dal 2016 al 2017, anno dell’ingresso dello Stato nel capitale con il 64%. Nel decennio 2010-2020 la banca senese ha realizzato aumenti di capitale per 20 miliardi e ancora oggi avrà bisogno di almeno altri 2 miliardi. Per non parlare delle gravi perdite subite dai risparmiatori e clienti della banca.

Quello che è successo poi – i Monti Bond ad esempio – è stato tutto un tentativo dello Stato di evitare il default di Mps, fino all’ingresso pubblico ufficiale e l’impegno, con le autorità europee, di cedere la partecipazione entro il 2022.

Ora pare che i rappresentati dello stato abbiano convinto Unicredit a guardare almeno la dataroom di una banca che però è snaturata, spogliata della vecchia gloria, con una reputazione ormai forse irrecuperabile e destinata a scomparire inghiottita da un gruppo ben più grande. Mentre lo stato ha dovuto farsi carico – come avvenuto in passato in altre situazioni – di tutto ciò che di marcio vi era rimasto. Con il conto finale che sembra destinato a salire rispetto ai 7 miliardi fin qui sborsati.

Una storia triste, si diceva, che offre tante lezioni da cui imparare. Ma che per ora lascia solo un grande amaro in bocca.

 

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