Salgono a bordo della Delorian Christine Lagarde e gli altri governatori delle banche centrali. E riportano i costi di indebitamento indietro ai tempi della crisi dei mutui subprime, che anticipò quella legata al debito. Come ampiamente previsto. Sì perché la battaglia contro l’inflazione non è finita. Tuttavia, e questa è la notizia più importante, la recessione non sembra più così ineluttabile. Lagarde, Jerome Powell ma anche Andrew Bailey utilizzano diversi modi per comunicarlo ma la sostanza resta questa. E così rieccoli ai livelli più alti del 2008, i tassi d’interesse della Bce, al 3% (grafico sotto), dopo l’ultimo aumento da 50 punti base annunciato nel meeting di febbraio. Pugno duro per l’Eurotower. Che resta falco. Perché promette un ulteriore intervento di uguale portata alla riunione di marzo, mese in cui è stato confermato si concluderà la pioggia di denaro (ne parliamo qui) innescata dal quantitative easing.
Ancor più esagerata la Bank of England. Non solo anticipa la Bce, con un rialzo dei tassi dello 0,5%. Ma lo fa con quello che di fatto è il decimo aumento consecutivo, per un livello di tassi reali al 4% (grafico sotto). Il Regno Unito resta l’indiziato numero uno per la recessione, già annunciata in tempi non sospetti dal governatore della Boe. D’altronde agli effetti della pandemia e allo shock legato ai prezzi energetici si aggiungono quelli causati dalla Brexit, a tre anni dall’uscita dall’Ue.
Al contrario, nell’Eurozona e soprattutto negli Stati Uniti si respira un nuovo ottimismo. Lo si vede dall’azionario, che procede con il vento in poppa in questo 2023 (Piazza Affari +13% da inizio anno, Francoforte +11%, Nasdaq +15%). Lo si legge dalle trimestrali aziendali, solide quelle degli ultimi tre mesi del 2022 guardando soprattutto le grandi banche. E lo si ascolta dalle parole del governatore. Che ha annunciato 25 punti base di aumento dei tassi. Il più moderato dopo i 50 punti di dicembre e i 4 interventi precedenti da 75 punti per un tasso che ha raggiunto il 4,75% (grafico sotto).
Sansone (iBanFirst): “La resilienza dell’economia Usa dà margine di manovra alla Fed”
“Powell è stato cauto, confermando la necessità di una politica monetaria restrittiva ancora qualche tempo -è il commento di Michele Sansone, country manager di iBanFirst-. L’attenzione del Fomc non è rivolta tanto sulla frequenza dei rialzi ma fino a che punto questi incideranno. È probabile che la riduzione dell’inflazione richieda un periodo di crescita al di sotto del trend e di indebolimento delle condizioni del mercato del lavoro. I dati storici mettono fortemente in guardia contro un allentamento prematuro della politica. L’economia resiliente degli Stati Uniti offre un margine di manovra decisivo per continuare la strozzatura della liquidità. D’altronde, la recessione non si è manifestata a fine 2022 e non è stata invocata neanche per l’anno appena iniziata”.
Proprio riguardo l’economia Usa, Sansone aggiunge: “Il Pil Usa è aumentato di nuovo nel quarto trimestre, +2,9%. Nonostante il calo dei consumi personali reali di novembre e dicembre, così come le vendite al dettaglio di dicembre, i dati in tempo reale sulle carte di credito sono aumentati di nuovo a gennaio e il commento sugli utili è stato ottimista per il consumatore. Sembra improbabile una recessione almeno nel breve e medio termine”.
Berlinzani (ActivTrades): “Powell più ottimista del solito. Lagarde pure”
La Fed ancora hawkish spinge così i costi di indebitamento ai massimi dal 2007. Ma secondo Saverio Berlinzani, analista di ActivTrades, lo fa con un linguaggio, quello utilizzato dal governatore, che ha determinato una rinnovata fiducia degli investitori: no recession. “Queste sono le parole chiave del discorso del numero uno della Fed. Un ottimismo più spiccato del solito da parte del presidente della Federal Reserve, che ha messo ogni pezzo del puzzle al suo posto. Annunciando cioè il punto di arrivo ormai vicino del pivot dei tassi. Aprendo all’idea che la recessione possa non più manifestarsi grazie a un’economia, quella americana, che si mantiene solida. E confermando che l’inflazione continuerà a scendere, seppur a piccoli passi”.
Picco raggiunto a giugno per gli Stati Uniti: +9,1%. Da quel momento, nei successivi sei mesi, il tasso di crescita si è ridotto fino al +6,5% di dicembre. Un calo tutt’altro che lento ma è esattamente quello che potrebbe accadere nel 2023. In fondo il livello dei prezzi al consumo è ancora più del triplo rispetto all’obiettivo del 2%.
Diodovich (Ig Group): “I mercati non credono più a Lagarde”
I mercati, come anticipato, hanno festeggiato. “Come se le banche centrali, i tassi d’interesse, li avessero tagliati -spiega Filippo Diodovich, market strategist di Ig Group-. E invece li hanno aumentati, chi più, chi meno. Non solo. La Fed si è impegnata a ulteriori rialzi, Francoforte stessa ha affermato l’intenzione di effettuare un altro rialzo di 50 punti”.
Per l’analista, la conferenza di Lagarde è stata “molto confusa. Il governatore ha ripetuto più volte che il posizionamento della Bce sarà restrittivo. Dichiarazioni hawkish, ma a cui i mercati evidentemente non sembrano voler credere. Basta guardare il rendimento del Btp, sceso nuovamente sotto il 4%. E anche il cambio euro dollaro è sceso, da 1,10 a 1,0950. Insomma, sembra proprio che dopo l’esito dei meeting delle banche centrali tutti gli investitori siano tornati ad acquistare sull’azionario. Pericolo scampato per loro”. D’accordo Berlinzani, secondo cui alla posizione iniziale di falco, Lagarde ha aggiunto anche indizi “dovish”, parlando di un’economia migliore delle attese e anche al costo dell’energia che si è ridotto più delle aspettative.
Lobefalo (Qw Capital Llp): “Bank of England più unita”
Sul fronte della Bank of England “è interessante -secondo Gianluca Lobefalo, founder and managing partner di Qw Capital Llp- la maggiore unanimità di decisione da parte del board, che ha votato con una maggioranza di 7-2. La volta scorsa c’era stata al contrario una grande divisione: un voto per 75 punti, due per nessun aumento e 6 per un intervento da 50 pbs”. Questo significa che probabilmente lo scenario che riguarda la gestione dell’inflazione in Gran Bretagna inizia a essere più chiaro, con una dispersione non più così netta per quanto riguarda gli intenti: a ottobre è stato raggiunto il picco, pari a +11,1%, sceso al 10,4% a dicembre. Com’è evidente, il Regno Unito è l’unica grande economia mondiale con la crescita del tasso d’inflazione ancora in doppia cifra. Secondo le proiezioni della Boe scenderà al +8% entro la metà del 2023 e al 4% a fine anno.
Prosegue Lobefalo: “La mancanza dell’unanimità assoluta conferma l’incertezza economica in Uk, che oltre al rallentamento globale si trova a fronteggiare una Brexit che più passa il tempo più non se ne capisce la ratio economica. Last but not least il Regno Unito è uno dei paesi che una maggiore leva finanziaria (real estate e private equity/debt). La cosa ha dato grandi benefici dal 1982 fino al 2021, ma già nel 2022 abbiamo visto un salvataggio ai limiti del loro sistema pensionistico, triggerato dalla scelta del premier Kwasi Kwarteng“.
Più in generale, il punto chiave per le banche centrali resta lo scenario macroeconomico, che al di là dei pulpiti di ottimismo di Powell e la recessione non più così evidente, resta complicato. “La riduzione dell’inflazione -continua Lobefalo- non si evidenzia dal lato costi per le aziende, che sono in aumento, a partire dalle pressioni salariali. Questo peserà probabilmente in maniera negativa sui margini. Così come il 2022 è stato caratterizzato da un’inflazione più forte delle aspettative, il 2023 vedrà riduzuione di margini e probabile un aumento della disoccupazione”.