Partiamo da qualche dato. Secondo CbInsights gli investimenti nelle challenger banks hanno raggiunto il picco nel 2021 a quota 14 miliardi di dollari per 128 operazioni, confermando fino a due anni fa quella che era la potenza dirompente di realtà come N26, Revolut, Monzo che da sole hanno raccolto oltre 1 miliardo di dollari in diversi round di finanziamento. In pochi anni le challenger sono state in grado di sparigliare le carte nella partita delle banche, semplificando e velocizzando le principali operazioni come ad esempio l’onboarding e i pagamenti.

Tuttavia l’anno scorso il vento sembra essere cambiato. Sempre CbInsights rivela che nel 2022 gli investimenti sono crollati del 69%, a 4,3 miliardi di dollari, per 77 deal. Di fatto, quella delle challenger banks è la categoria fintech dalla quale si sono ritirati i maggiori finanziamenti. Per fare qualche altro esempio, la Allianz ha messo in vendita la sua partecipazione di circa il 5% in N26 a una valutazione di 3 miliardi di dollari rispetto ai 9,2 miliardi ottenuti durante il suo ultimo round di finanziamento nell’ottobre 2021. Schroders invece, stando ad alcuni articoli, avrebbe svalutato il suo investimento in Revolut di circa il 46%, a 5,4 milioni di sterline, rispetto ai 10,1 milioni al 31 dicembre 2021. Dal canto suo la challenger ha risposto: Non facciamo speculazioni sulla nostra valutazione. Dal nostro ultimo round di finanziamento, in cui siamo stati valutati 33 miliardi di dollari, Revolut ha continuato a registrare ottimi risultati in tutti i suoi mercati, ha continuato ad assumere ed espandersi e ha registrato il suo primo anno intero di redditività.”

Fuori Europa, la brasiliana Nubank, la più grande società quotata del settore, ha visto la sua capitalizzazione di mercato diminuire di oltre il 50% dalla sua ipo due anni fa.

Fuga e redditività

Le ragioni di questa fuga sono molteplici. Innanzitutto c’è stato un calo dei volumi complessivi di finanziamento nel settore fintech e sembra in particolare che gli investitori stiano evitando quei comparti con una mentalità di “crescita a tutti i costi”, a favore di quelle con modelli di crescita più sostenibili. La sostenibilità dei conti è tornata a essere insomma un criterio quando si sceglie un investimento, dopo anni di soldi facili e di fomo (fear of missing out) cioè di paura di perdere il prossimo unicorno dalle uova d’oro che ha spinto gli investitori a investire chiudendo a volte anche più di un occhio.

Il modello di business e la reddittività sono altre ragioni di questa fuga: i clienti utilizzano raramente le banche digitali come conto principale, il che si traduce in commissioni più basse dovute a volumi di pagamenti e transazioni inferiori. Secondo alcune le stime, meno del 5% delle banche digitali sarà in pareggio.

Le challenger sono poi fortemente dipendenti dalle commissioni di interscambio delle carte di debito a basso margine. Il tutto in un contesto di rialzo dei tassi, che ha riportato un po’ di slancio sui conti delle banche tradizionali e che ha di nuovo sconvolto il mercato, provocando non pochi scossoni (si pensi al fallimento di Credimi in Italia).

Cosa fare dunque? Una delle strade potrebbe essere puntare da un lato sui prodotti di credito al consumo in modo da beneficiare del miglioramento dei margini di interesse netti in seguito all’aumento dei tassi di interesse. Tuttavia, le banche digitali che si vorranno spingere nel settore dei prestiti dovranno fare i conti con le potenziali morosità e quindi investire nelle loro capacità di costruire modelli di credito solidi che consentano di prendere decisioni tenendo conto del rischio. Le banche digitali dovranno anche trovare il modo di aumentare i volumi dei depositi per finanziare i prestiti a basso costo.

Un altro fattore chiave potrebbero essere le micro-imprese e quelle piccole, a lungo trascurate dalle banche tradizionali perché meno redditizie da servire come i clienti commerciali più grandi. Di conseguenza, le pmi vogliono commissioni più basse, prodotti più flessibili e una migliore assistenza digitale. Le banche digitali potrebbero sfruttare la loro agilità operativa e le app mobili di facile utilizzo per soddisfare le richieste delle pmi di maggiore flessibilità e velocità e di un’esperienza digitale migliorata.

La crisi delle challenger banks non deve però essere vista dalle banche tradizionali come un incentivo a non puntare sulla digitalizzazione e a trovare un nuovo modello di business. Perché tech e innovazioni potranno subire la maggiore prudenza che il rialzo dei tassi ha imposto sul mercato, ma i cambiamenti e le rivoluzioni che hanno portato non scompariranno.

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