Poche e con ancora tanta strada da fare. Sono le aziende italiane che hanno intrapreso la strada della digital transformation. Nonostante infatti la digitalizzazione sia uno degli obiettivi che tutti i paesi europei dovrebbero raggiungere entro il 2030, l’Italia arranca e il fanalino di coda sono proprio le sue imprese.

Un danno enorme non solo per il nostro Paese ma per tutta l’Unione europea visto che l’Italia è la terza economia per dimensioni e quindi il suo contributo è fondamentale per consentire all’intera Ue di conseguire gli obiettivi del decennio digitale: il programma lanciato dall’Unione europea per favorire e guidare la trasformazione digitale di tutti i Paesi dell’area, fissando obiettivi e traguardi da raggiungere entro il 2030.

Il ritardo tecnologico e digitale italiano non è certo una novità. Ed è un problema che secondo chi conosce bene il settore si lega non solo alla storia economica del nostro Paese ma anche, come vedremo, a quella culturale e sociale.

A che punto siamo?

Dal 2014 la Commissione europea monitora l’avanzamento digitale degli Stati membri attraverso la relazione sull’indice dell’economia e della società digitali (Desi). Relazione che dal 2023 è stata integrata in quella sullo stato di avanzamento del decennio digitale.

Cosa raccontano questi report della situazione italiana? Al di là delle classifiche (in cui l’Italia non brilla visto che secondo il report Desi 2022, su 27 Stati, il nostro occupava la 18esima posizione) ciò che emerge è sicuramente che il nostro Paese è molto migliorato negli ultimi 5 anni e che la questione digitale è diventata di grande interesse sia a livello politico e istituzionale, sia tra le imprese. Un passo avanti che ha notato anche chi opera nel settore della trasformazione digitale come Alkemy, società che aiuta le aziende a far evolvere il proprio modello di business attraverso gli strumenti offerti dal digitale. 

“Siamo nati nel 2012 – racconta l’ad Duccio Vitali – e da allora la digital transformation ha fatto passi da gigante. Dodici anni fa solo una piccola parte degli amministratori delegati aveva nella propria agenda la trasformazione digitale. Da allora è migliorato il livello di consapevolezza: non ci sono cioè più dubbi riguardo al fatto che il digitale aggiunga valore a un’azienda”.

Un valore che secondo Duccio Vitali è pari al 100% perché non si tratta di una leva che porta solo un beneficio economico, ma piuttosto di uno strumento necessario alla sopravvivenza stessa dell’impresa. “Chi non abbraccia la digital transformation – spiega Vitali – è destinato a scomparire per la perdita di competitività”.

Il problema delle competenze

A fronte di una contropartita così alta, il nostro Paese sembra però aver fatto ancora troppo poco.

I miglioramenti più grandi si registrano nel settore delle infrastrutture dove la copertura 5G è passata dall’8 % al 99,7 % delle zone abitate nel 2022 (fonte: Desi 2022).

Rimangono invece sotto la media Ue la diffusione di competenze digitali e molti aspetti che riguardano la digitalizzazione del servizi pubblici.

Secondo l’ultimo rapporto sullo stato del decennio (2023) solo il 46% della popolazione possiede competenze digitali di base e anche la percentuale di specialisti digitali rispetto al totale della forza lavoro è estremamente bassa rispetto alla media europea. Una situazione che non sembra destinata a migliorare visto che il numero di laureati nel settore information and communication technologies (Ict) è pari all’1,5%, il dato più basso dell’Ue. Con il risultato che non saremo in grado nemmeno nei prossimi anni di soddisfare la domanda delle imprese di professionisti qualificati che secondo Vitali rimane già oggi inevasa: “mancano 500mila profili sul digitale  – rivela – e il dato è destinato a crescere”.

La mancanza di competenze digitali è un problema che ha radici profonde nel sistema scolastico e formativo del nostro Paese, ancora fortemente umanistico. “Basti pensare – spiega l’ad  di Alkemy – che a Milano c’è un solo corso universitario sull’Intelligenza artificiale”. Ad aggravare la situazione c’è poi secondo Vitali il fatto che i corsi di laurea Stem sono ancora poco frequentati dalle donne ma “visto che queste rappresentano il 50% della popolazione è come se avessimo un jet di cui funziona un solo motore”.

Temi questi su cui, secondo l’ad, lo Stato dovrebbe agire ripensando il proprio modello educativo con una riforma che agisca sul medio-lungo periodo.

Il ruolo del Pnrr

Se invece si guarda al breve periodo, lo strumento principale per accelerare la trasformazione digitale di tutti i settori economici è il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che prevede un ingente stanziamento di fondi proprio a questo scopo. Si tratta di ben 48 miliardi di euro, il 25% dell’intera somma assegnata al nostro  Paese (191 miliardi).

Si tratta di cifre enormi rispetto all’attuale valore del mercato del digitale italiano che quindi, grazie a questa iniezione di fondi, potrebbe uscirne completamente trasformato. “Il mercato del digitale italiano oggi vale 6 miliardi – rivela Vitali – quindi l’impatto di circa 40 miliardi potrebbe essere enorme”. L’ad di Alkemy usa però il condizionale perché ad oggi i 23 miliardi a disposizione delle imprese private (gli altri 17 sono destinati alla digitalizzazione della pubblica amministrazione) non sono ancora stati utilizzati. “I più ottimisti si aspettavano che i fondi sarebbero stati impiegati già entro la fine del 2022. In realtà non è ancora stato fatto nulla e bisogna sbrigarsi perché la procedura è di per sé lunga visto che i fondi non possono essere distribuiti direttamente, come avviene per la pubblica amministrazione, ma bisogna istituire bandi di gara con cui assegnare poi agevolazioni come ad esempio il credito d’imposta”.

Imprese a due velocità

Se si dovesse raccontare in una frase la digitalizzazione dell’economia italiana, si potrebbe dire che la maggior parte delle imprese sono in ritardo mentre poche sparute realtà sono al passo con quanto avviene nei Paesi più all’avanguardia come il Regno Unito o gli Stati Uniti.

Un quadro confermato anche da Duccio Vitali che rivela: “Un terzo del nostro business è rappresentato dai servizi che eroghiamo alle imprese che hanno già avviato una trasformazione digitale del proprio modello di business. I restanti due terzi sono invece dedicati a fornire singoli servizi ad aziende non ancora così mature”.

In particolare queste ultime sono circa il 75% delle aziende italiane, come rivela uno studio realizzato da Alkemy circa il grado di maturità delle aziende quotate in  Borsa italiana. “Sono realtà – spiega Vitali – che si sono, per esempio, dotate di una piattaforma di e-commerce o di un’app, ma che non hanno trasformato il proprio modello di business. Chi lo fa sono oggi meno di 1 azienda su 4 (25%)”.

A frenare l’avanzata del digitale nell’economia italiana è come abbiamo visto un ritardo culturale, la mancanza di competenze ma anche, secondo l’ad, un deficit di coraggio. “È difficile – precisa Vitali – mollare il vecchio per il nuovo, il noto per l’ignoto. È un’azione che richiede un grande coraggio che spesso manca proprio alle società più grandi e di successo”.

In generale, secondo i report realizzati da Alkemy, le imprese più innovative sarebbero quelle con un business rivolto ai consumatori perché, rivela l’ad, “il cliente finale è già digitalizzato e quindi le aziende devono per forza adeguarsi alla sua richiesta”.  Si tratta per esempio dei financial services, del settore tmt e utilities. “Va meno bene se guardiamo invece al settore consumer goods o a quello industriale. In generale però quello che notiamo è che i board sono poco preparati sul tema digital”. Secondo l’ultima rilevazione di Alkemy, realizzata in collaborazione con Borsa italiana e Assonime,  il 42% delle aziende non ha alcun membro del board con competenze digitali.

Un problema che secondo Vitali andrebbe affrontato come fece la legge Golfo-Mosca con l’equilibrio di genere: “bisognerebbe prevedere delle quote digitali in tutti i board, come si fece con le quote rosa, così da portare finalmente un po’ di stimoli verso la trasformazione digitale in tutte le imprese”.

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