Lo spread è tornato sopra i 200 punti. A inizio giugno ha toccato i massimi, oltre quota 213, mai così alto da maggio 2020. Ed è di nuovo allarme rosso. Ma non avevano mica detto che la sola presenza di Mario Draghi avrebbe risolto la questione una volta per tutte?
In condizioni normali probabilmente sì: Draghi avrebbe domato lo spread con la sua “sola” presenza, come in effetti è accaduto già nei primi giorni del suo insediamento a Palazzo Chigi (era sotto i 100 punti). Attenzione però: per condizioni normali possiamo intendere lo scenario antecedente alla guerra e all’inflazione causata dall’impennata dei costi delle materie prime, pur riconoscendo che tra pandemia e crisi della catena di approvvigionamento, di normale c’era ben poco anche prima del conflitto Russia-Ucraina.
Tutto questo per dire che la situazione oggi è completamente cambiata. Mica per niente, di recente, ci sono tre grandi banche d’affari, e cioè Bank of America, Jp Morgan e Goldman Sachs, tutte d’accordo su un fatto: la confluenza del numero di shock subiti dal sistema economico e finanziario è senza precedenti, parole usate da John Waldron presidente di Goldman Sachs. Una confluenza che potrebbe scatenare a breve un uragano economico, con tanto di tempesta sui mercati, e sullo spread, come non si vedeva da tempo.
Non è la prima volta in cui si parla di tempesta sullo spread. Era già accaduto durante la crisi del debito nel 2012, e durante la crisi di governo nel 2018 (foto tradingview.it sotto) La situazione di oggi è la stessa di allora?
Per niente. Innanzitutto perché nel 2012, lo spread s’impennò fino a 541 punti mentre quattro anni fa la punta dell’iceberg fu di 340 punti. In entrambi i casi, seppur per motivi diversi, il problema era solo e soltanto uno: l’Italia, soffocata da un gigantesco debito pubblico e dalla predisposizione quasi naturale all’instabilità della sua politica. Adesso invece il problema, come anticipato, è un insieme di tanti (troppi) fattori straordinari che hanno letteralmente messo in ginocchio l’intero sistema, causando, tra i vari effetti, l’aumento del rendimento dei titoli di stato di tutti i paesi europei, Italia compresa.
Cosa significa che il rendimento dei titoli di stato sta aumentando? È la stessa dinamica del mercato azionario, in cui se un titolo cresce, a sua volta cresce anche il suo valore?
No, anzi, è esattamente il contrario. Più il rendimento di un titolo di stato aumenta, più il valore reale del titolo di stato si riduce. Intanto va spiegato che cos’è un titolo di stato, o bond governativo. Si tratta di un’emissione che conferisce a chi la compra il diritto a ricevere, alla sua naturale scadenza, il rimborso totale della somma versata, con l’aggiunta di un interesse, definito proprio dal rendimento del titolo di stato, da qui l’espressione comunemente usata per questi prodotti, vale a dire: obbligazione, strumento di debito in cui si presta denaro a un governo a un tasso di interesse concordato.
Denaro che viene utilizzato per sostenere e rinforzare l’economia del paese realizzando riforme, progetti strutturali legati ad esempio alle infrastrutture, all’istruzione o alla sostenibilità energetica. In questo modo si generano nuovi posti di lavoro, i profitti aumentano, si crea una sorta di circolo virtuoso che permette al governo di ottenere un ritorno maggiore rispetto a quanto investito, comprese le risorse per restituire gli interessi ai cittadini creditori alla scadenza dei bond. In una frase: i governi usano questi prestiti per destinarli a nuovi progetti o infrastrutture, per gli investitori costituiscono una fonte di rendimento.
Perché allora se il rendimento di un titolo di stato sale, bisogna preoccuparsi?
Per due motivi. Il primo: più il rendimento sale, maggiore è il valore della cedola che il paese in questione deve restituire agli investitori. In sostanza, lo spread basso permette al paese debitore di risparmiare diversi miliardi di euro in interessi. L’arrivo di Draghi come presidente del Consiglio, ad esempio, fece risparmiare all’Italia 2,5 miliardi di euro, succedeva a febbraio, nel 2021: lo spread toccò un minimo di 88 punti base, come non succedeva dal 2015 (all’epoca del governo Renzi). Adesso abbiamo superato i 200, sono quasi 110 punti in più e stando alle proiezioni, potrebbero costare all’Italia un aumento di 17 miliardi di interessi nei prossimi tre anni.
Il secondo motivo è legato al rischio, che è direttamente proporzionale al rendimento. Se aumenta il rendimento, aumenta anche il rischio che il paese in questione non sia più in grado di restituire gli interessi, diventando per il mercato un “cattivo pagatore”. In questo senso investitori e risparmiatori non sono per niente incentivati a comprare o anche a conservare nel proprio portafoglio obbligazioni di un paese che non paga i debiti. E così, per rendere più appetibile i propri bond, ecco che lo Stato emette nuovi titoli, con rendimenti più alti. Come spiega anche il Sole 24 Ore, è il processo definito: debito chiama debito. Solo che per poter garantire rendimenti così impegnativi, i governi sono costretti ad alzare le tasse, ridurre la spesa, provvedimenti che inevitabilmente colpiscono le tasche dei cittadini.
Anche il rendimento del btp decennale italiano sta salendo di nuovo: il +3,56% di inizio giugno è il massimo dal 2018 (grafico Tradingeconomics sopra). Ma allora il problema è ancora l’Italia?
Non stavolta. Come anticipato, è in corso una serie di reazioni a catena causata da fattori che forse definire straordinari è poco. L’alta inflazione innanzitutto. Che sta costringendo le banche centrali ad avviare una politica monetaria molto più stringente rispetto a quella avviata due anni fa, che al contrario aveva come obiettivo il sostegno dell’economia, alle prese con i lockdown e il coronavirus. Uno dei provvedimenti più utilizzati da grandi istituti centrali, come la Federal Reserve o la Bank of England, è il rialzo dei tassi, ovverosia l’aumento del costo del denaro, mossa che riduce sensibilmente la propensione al rischio degli investitori ma necessaria per cercare di sgonfiare per l’appunto i prezzi cresciuti troppo (l’inflazione), tra guerra e strozzature delle catene di approvvigionamento causate dalla ripresa post Covid.
Ma non solo. Oltre ad aver chiuso il programma straordinario approvato per sostenere l’euro durante la pandemia denominato Pepp (Pandemic Emergency Purchase Programme), la Bce sta per staccare la spina anche al cosiddetto Asset Purchase Programme (App). Si tratta di un altro pacchetto di misure di acquisto massiccio di titoli pubblici e privati, avviato già all’epoca della crisi dei mutui subprime, a sostegno soprattutto dei paesi con il debito pubblico più alto, Italia in primis. Senza un acquirente forte come la Bce, i bond italiani stanno perdendo valore. Il rendimento sta aumentando e il che si traduce in uno spread di nuovo sulla soglia di allarme.
Ma questo vale per tutti. Germania compresa, il cui decennale, unità di misura dello spread perché storicamente il più sicuro e affidabile (vedi la definizione: differenziale btp/bund) ha superato l’1,3% di rendimento, mai così in alto dal 2014 (grafico Tradingeconomics sotto). Noi siamo al top dal 2018. Finlandia, Olanda, Grecia, Francia, Spagna e Portogallo hanno tutti raddoppiato il proprio yield da inizio anno. Lo spread sale per tutti ma l’Italia è più sotto pressione perché il debito è maggiore rispetto agli altri grandi paesi fondatori Ue. Debito chiama debito resta uno slogan tra i più adottati dal governo italiano negli ultimi decenni. Motivo per cui, secondo il Ft, parallelamente al rialzo dei tassi la Bce potrebbe varare un nuovo programma in grado di sostenere i bond dei paesi più esposti.
Quindi, alla fine dei conti, questo spread oltre quota 200 punti, che cosa ci sta dicendo?
Lo spread di un paese è il termometro della sua affidabilità economica e finanziaria. In questo senso l’arrivo di Mario Draghi, in assenza di ulteriori market mover e in un momento in cui la pandemia stava abbassando la guardia, era stato accolto dal mercato come una garanzia di equilibrio a livello di conti e di fedeltà all’Europa. L’esatto opposto di quanto è accaduto con Lega e M5S al potere con il primo governo Conte, due correnti politiche diverse ma dichiaratamente contrarie all’Ue.
Lo spread superò così di slancio i 300 punti e cominciò a crescere la preoccupazione degli investitori internazionali di fronte a un eventuale referendum sull’uscita dall’Euro, iniziativa che avrebbe generato non pochi problemi sul fronte del grandissimo debito italiano, nel caso in cui fosse tornata la lira. Scenari poi archiviati ma che, con le elezioni 2023, potrebbero riaprirsi. Giorgia Meloni, un altro personaggio politico dichiaratamente antieuropeista, è in testa ai sondaggi da mesi: la storia, insomma, potrebbe ripetersi.