Il 17 febbraio 1992 l’avvocato penalista Massimo Dinoia si trovava assieme al collega Nerio Diodà al Tribunale di Milano in attesa di una sentenza di un processo d’appello. Videro scendere dalle scale, proveniente dal piano superiore, un magistrato con un cappello e un loden di colore verde. Era Antonio Di Pietro e procedeva di fretta. L’uomo vide Diodà, legale tra gli altri del Pio Albergo Trivulzio (Pat), una casa di cura pubblica di Milano, e gli si avvicinò, avvisandolo di ciò che stava per fare. “Avvocato”, gli disse. “Sto andando a fare una perquisizione al Pat”.
Oggetto della perquisizione è Mario Chiesa, presidente del Pat ed esponente di punta del Partito socialista italiano. Quel giorno di trenta anni fa segnò per sempre il destino dell’Italia politica, sancendo la fine della Prima Repubblica, cioè quella divisione di partiti e quegli assetti politici che avevano caratterizzato il nostro Paese dal Dopoguerra, e l’inizio di qualcos’altro. Perché da quella perquisizione, in cui Chiesa fu colto in flagranza mentre intascava una tangente da 7 milioni di lire dall’imprenditore Luca Magni, nacque l’inchiesta chiamata Mani Pulite, un’azione giudiziaria che fece emergere un sistema di corruzione endemico, organizzato e diffuso attivo da decenni che coinvolgeva quasi tutti i politici dell’epoca e quasi tutte le imprese che volevano partecipare agli appalti pubblici.
“Quella di Tangentopoli era un’economia dopata, alimentata dall’omertà dei soggetti coinvolti e di cui nessuno si era realmente reso conto”, spiega a Dealflower Dinoia, difensore di tanti (“un centinaio”) degli imprenditori coinvolti nell’inchiesta e oggi fra i penalisti più importanti della piazza milanese, nonché difensore di Di Pietro nei processi successivi che lo coinvolsero. Una “concussione ambientale”, dice l’avvocato, usando l’espressione coniata proprio da Di Pietro, colui che scoperchiò il vaso di Pandora dando il via all’inchiesta che vide oltre 4.500 iscritti nel registro degli indagati a più livelli – fra gli altri Bettino Craxi (Psi), Franco Nobili (Iri), Gabriele Cagliari (Eni), Carlo Tognoli (sindaco di Milano) e Francesco Mattioli (Fiat) – 3.200 richieste di rinvio a giudizio e 1.281 condanne, delle quali 965 per patteggiamento.
Avvocato Dinoia, cosa resta di Tangentopoli?
A livello legislativo molto poco. Negli anni il sistema giudiziario è cambiato ma in peggio, il legislatore è intervenuto per inasprire le pene ma nel caso della corruzione non è ancora stato fatto molto per scardinare l’omertà, che è il cuore e l’ossigeno della corruzione. Solo attraverso un’attività di prevenzione è possibile scardinare i sistemi corruttivi e cioè consentendo a chi partecipa di confessare senza rischiare di finire in carcere. L’unico possibile grimaldello che ho visto di recente è la tutela dei whistleblower.
Dal Mose a Venezia fino a Expo a Milano passando per gli appalti per la ricostruzione dell’Aquila dopo il terremoto del 2009 e all’inchiesta sulla fondazione Open. Episodi di presunta corruzione o finanziamento illecito non sono rari sulle pagine dei giornali…
Per chi fa il mio mestiere è difficile dire se queste siano punte di un iceberg più grande o no, noi interveniamo solo quando le carte sono scoperte. Da ciò che vedo oggi siamo in una condizione neanche lontanamente paragonabile a quello che fu Tangentopoli, con la sua ampiezza e capillarità.
Nel nostro Paese Mani pulite è un tema divisivo, tra chi condanna la politica e l’impresa e chi punta il dito sull’eccessivo potere della magistratura…
Il tema è sempre stato non tanto quello delle accuse quanto più della carcerazione preventiva, che è un problema vero allora come oggi. Tuttavia dalla mia esperienza posso dire che l’azione dei magistrati dell’epoca non era finalizzata all’aggressione fine a sé stessa, quanto piuttosto a svelare questo sistema per lasciare una società migliore per i nostri figli. E all’epoca c’erano tutte le condizioni affinché si ponesse fine a Tangentopoli.
Quali erano queste condizioni?
La prima è la rivolta popolare, quindi la pressione dei media e dell’opinione pubblica. Ci furono cortei a sostegno di Di Pietro e del pool di magistrati perché i cittadini erano stufi della corruzione e dell’indebita appropriazione di denaro da parte dei partiti e dei politici. L’opinione pubblica, alimentata dai giovani, fu il grimaldello che scardinò il sistema, la molla che avviò l’inchiesta. Molti degli imprenditori coinvolti facevano fatica a confessare perché avevano timore dell’immagine di sé che lasciavano ai propri figli. Per farle capire le racconto un aneddoto…
Prego…
Ero in Tribunale con un imprenditore inquisito mio assistito, era il 1993, e questi, dopo l’interrogatorio si avvicinò a Di Pietro per chiedergli un autografo per la figlia. Dopo un attimo di incredulità gli dissi che poteva trovarlo in fondo al verbale…
Possibile che nessuno abbia avuto il sentore di ciò che stava accadendo? Per molti, se si fosse indagato a fondo ad esempio anni prima, sui fondi neri dell’Iri, forse si sarebbe arrivati prima alla verità…
Non sono d’accordo, l’Iri è stato un fatto a se stante e poi i tempi non erano maturi, l’opinione pubblica non lo era. Ci furono anche altri processi negli anni ’80, come quello sulla Codemi o che coinvolsero anche società pubbliche poi finite nell’inchiesta di Mani pulite, ma non c’erano i presupposti affinché quell’alone di omertà venisse meno. A tal proposito c’è un altro aspetto di cui si parla poco ma che secondo me fu decisivo.
Quale?
L’introduzione del patteggiamento nel Codice di procedura penale, nel 1987. Grazie alla possibilità di patteggiare e quindi di evitare il processo e uscirne in tempi brevi, tanti imprenditori confessarono contribuendo a scoprire il sistema di corruzione. Senza questa possibilità dubito che ci sarebbero state tutte quelle confessioni.
Secondo molti osservatori l’opinione pubblica tende spesso a cercare nella magistratura quel supporto e quell’aiuto che non trova nella politica, come dimostra ad esempio l’aspettativa rivolta al referendum sull’Eutanasia, bocciato proprio in questi giorni dalla Corte Costituzionale. E questa attenzione avrebbe portato la magistratura, oggetto di altri referendum e di una riforma, ad avere troppo potere. Fu così anche allora?
Penso proprio di no e a riprova di questo fu la risposta bulgara al referendum del 1987 che stabilì con l’80% dei sì la responsabilità civile dei magistrati. Una reazione un caso che scosse il paese, quello di Enzo Tortora. Fu con Di Pietro che la magistratura cominciò a essere vista come l’unica in grado di combattere le storture del sistema.
È per via di questo supporto pubblico che Di Pietro si candidò in politica?
Non saprei dirlo.
Lei è stato il suo avvocato nei processi successivi…
Sì e posso dirle che Di Pietro è stato indagato più anni, dal 1995 al 1999, di quanti non abbia dedicato all’inchiesta Mani pulite, così come capitò ad Andrea Padalino, che fu il Gip di Mani pulite. Indagato dal 2017, un mese fa è stato assolto, con formula piena, dopo anni di indagini preliminari nei suoi confronti. Escludo che si trattassero di rappresaglie, erano questioni soprattutto personali. Ma ho pubblicato sui social, a nome di Padalino, il comunicato stampa che avevo diffuso subito dopo la sentenza, affinché tutti, in primo luogo i magistrati, riflettano seriamente sulle conseguenze devastanti che qualsiasi procedimento penale porta inevitabilmente sempre con sé.