Sul calendario della comunità finanziaria milanese e non solo il 28 ottobre prossimo è già segnato con un bel cerchio rosso e qualcuno sta già preparando i pop-corn. Quel giorno è prevista infatti l’assemblea per il rinnovo del consiglio di amministrazione di Mediobanca che vede in campo, per usare una metafora calcistica, due principali schieramenti: il board uscente capitanato dall’ad Alberto Nagel, intenzionato a proporre la sua lista si immagina in totale continuità con la gestione attuale, e l’azionista di maggior peso, la Delfin guidata da Andrea Milleri dopo la morte del fondatore Leonardo Del Vecchio.

Proprio in questi giorni, stando alle indiscrezioni stampa, la holding della famiglia Del Vecchio – che detiene il 20% della banca – avrebbe chiesto parere di veto su dieci dei 15 consiglieri presentati nella lista del cda. Se non accontentata, Delfin pare pronta a presentare entro la scadenza del 3 ottobre una lista di minoranza che potrà essere depositata senza necessità di un’autorizzazione da parte della Banca centrale europea.

Considerando ciò che Mediobanca è ed è stata per la finanza italiana, un perno attorno al quale per tanto tempo hanno ruotato aziende, business e politica, questo ennesimo scontro per il controllo pare a chi scrive come la guerra tra casate per conquistare il Trono di Spade (sì, è un vero trono fatto di tante spade) nella celebre saga letteraria nonché serie Tv Il Trono di Spade (originale: Game of Thrones). Un gioco di potere e tra poteri, insomma, che si vede spesso in Italia. E che purtroppo, in alcuni casi, poco ha a che vedere con l’interesse della società o azienda oggetto della disputa.

Nel caso di Mediobanca questo scontro è anche rappresentativo di un’altra dicotomia, quella tra il cambiamento e il mantenimento dello status quo.

Contattata da MF-Milano Finanza, Delfin ha spiegato che la richiesta di rinnovare il board almeno di almeno i due terzi degli attuali 15 consiglieri è legittimata da una serie di considerazioni tra le quali il fatto che la maggioranza dei membri del cda ha alle spalle più di un mandato e che spesso è il frutto di vecchi assetti azionari, in quota cioè a soci non più presenti nel capitale, come l’imprenditore francese Vincent Bollorè o Unicredit. L’obiettivo è quello di elevare il livello qualitativo del board e in generale dei vertici, tanto che la holding preme affinché venga nominato un presidente di “alto livello” e “condiviso” e chieda nomine non in conflitto di interessi.

L'”accusa” finale ai vertici è quella di aver fatto troppo poco e troppo a rilento, ad esempio non puntando con abbastanza decisione su business più remunerativi come l’asset management.

Dall’altra parte, le prime linee di Piazzetta Cuccia si arroccano sui risultati: Mediobanca ha chiuso l’esercizio 2022-2023 con numeri record, a cominciare dall’utile che supera il miliardo di euro, nell’ultimo anno il titolo è passato da 8 a 12 euro mentre in dieci anni il total shareholder return è stato del 216%. Tutti felici insomma. E come ha scritto anche il centro ricerche di Equita in un report: “Squadra vincente non si cambia”.

Ma vincente per chi? Sicuramente per gli azionisti della banca, potremmo dire.

Qui sta uno dei punti cruciali del ragionamento: un’azienda che non cambia e prosegue imperterrita per la sua strada no matter what con l’unico obiettivo di far felici gli azionisti si chiama cash cow e la sua strategia è frutto di una visione di breve periodo. Salvaguardare certi equilibri e tali interessi specifici finisce inevitabilmente per penalizzare la crescita in quanto le risorse non sono investite ma vengono distribuite. Dall’altro lato, il cambiamento è positivo se porta, in un piano di medio-lungo, a una crescita sostenibile (nel senso generale del termine). Se questo sia l’obiettivo di Delfin non è chiaro, forse avrebbero dovuto presentare delle proposte strategiche concrete prima di battagliare sul board, così come non è immediato capire se l’interesse a mantenere la “poltrona” dell’attuale cda sia legittimato dal lavoro svolto finora o se frutto di quegli interessi particolari di cui sopra, ma questi sono altri discorsi.

Lo spunto di riflessione offerto dalla vicenda è che è vero che nel nostro sistema finanziario spesso l’avversione al cambiamento è legata alla salvaguardia dello status quo che piace a pochi e non fa bene alla società. E altrettanto spesso le spinte al cambiamento sono anch’esse figlie di altri poteri che non vogliono altro che ulteriore potere. Questo teatrino è andato in scena molte volte, in Italia, e appare particolarmente inappropriato in un contesto in cui l’economia è globalizzata e i piccoli interessi italiani spariscono di fronte ai colossi mondiali. Quelle aziende sì che corrono con strategie di lungo periodo e non a caso finiscono per comprarsi le società italiane, vittime di battaglie intestine in cui alla fine non c’è nessun reale vincitore.

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