Lionel Messi e Romelu Lukaku sono l’emblema della crisi finanziaria,

Romelu Lukaku

forse irreversibile, dell’industria del calcio. No, non è un paradosso che due giocatori che muoveranno – tra pagamento del cartellino del belga, ingaggi al lordo e commissioni agli intermediari – grosso modo 500 milioni di euro siano il simbolo di un comparto moribondo. Ma così è. Proviamo a spiegare.

Il punto di partenza della riflessione è l’articolo che Dealflower pubblicò l’8 giugno scorso sul debito che grava su gran parte dei club europei e sulla connessione con il progetto, mai naufragato definitivamente, della SuperLega.

Da allora sono successe diverse cose. L’Italia ha vinto gli Europei. Bene, bravi, caroselli, baci, abbracci e popopò (tutto, peraltro, inopportuno in tempi di Covid). Ma la situazione finanziaria dei club calcistici non è cambiata di una virgola.

L’8 agosto, poi, si sono chiuse le Olimpiadi di Tokyo. Un trionfo per i colori azzurri. Tanto più bello in quanto inatteso. Un “deliquio patriottardo” (Michele Serra) su quotidiani, tv, radio, media online e social. Di nuovo, però, la situazione finanziaria del calcio, ovvero del motore primo dello sport in Italia, non è cambiata di una virgola.

Nelle stesse ore in cui Marcell Jacobs e colleghi infiammavano i cuori tricolori (che riscoprono atletica, ginnastica, nuoto, scherma e gli altri sport cosiddetti minori ogni quattro anni, per poi tornare a essere calcio-centrici) sono successe due cose epocali. Il Barcellona ha annunciato di non poter rinnovare il contratto di Messi, uno dei calciatori più forti di ogni epoca, pur avendo accettato, l’asso argentino, di dimezzarsi l’ingaggio.

La crisi dell’Inter

Il secondo fatto epocale riguarda l’Inter, ovvero la squadra che ha vinto il titolo italiano nella stagione 2020-2021. Dopo aver perso l’allenatore – Antonio Conte, liquidato con 6,5 milioni perché non in sintonia con il ridimensionamento dei programmi – e l’esterno destro marocchino Achraf Hakimi, ceduto al Paris Saint Germain per 75 milioni (bonus compresi) – arrivato appena un anno prima e già determinante -, i nerazzurri hanno definito la cessione per 115 milioni di euro di Romelu Lukaku, che andrà al Chelsea. Lukaku è stato il giocatore più importante nel processo di crescita dell’Inter. L’uomo-simbolo dello scudetto. Il totem attorno a cui Conte, la dirigenza (Beppe Marotta e Piero Ausilio) e la proprietà (il gruppo cinese Suning della famiglia Zhang) avevano costruito il progetto di rilancio della Beneamata.

Non si ricorda una squadra fresca di scudetto che, non solo non tenta di rinforzare l’organico per confermarsi in Italia e provare l’assalto alla Champions League, ma addirittura cede i pezzi pregiati al miglior offerente. E ora i rumours di mercato riferiscono di approcci di più club nei confronti di Lautaro Martinez, con una proprietà cinese che sarebbe disposta a cedere l’attaccante argentino a fronte di un’offerta da 90 milioni. Infine, si ipotizza che altri giocatori – Stefan De Vrij, in particolare – possano cambiare aria durante questa sessione di mercato.

La crisi dell’Inter, lo avevamo scritto a giugno, parte da lontano. Il fatto che non si fosse trovato un accordo con BC Partners per l’ingresso nel capitale e che l’unica soluzione per dare un po’ di ossigeno alle casse nerazzurre fosse un prestito a tassi elevatissimi da parte di Oaktree era un pessimo, orribile segnali. Sintomi di una società non abbastanza appetibile per un investitore di private equity e non bancabile, cioè troppo fragile finanziariamente per essere sostenuta da prestiti bancari a tassi di mercato.

Man mano i pezzi del puzzle sono andati a posto. Dalla Cina sono arrivate le conferme delle difficoltà del gruppo Suning: la chiusura praticamente della sera alla mattina della squadra Jiangsu Suning (che militava nella massima serie cinese) e l’ingresso – con una quota del 17% del capitale – di un gruppo di investitori comprendente Alibaba e Xiaomi nel capitale di Suning.com, una soluzione imposta dal governo di Pechino.

Al 30 giugno 2020 l’Inter aveva sul groppone 630 milioni di debiti, di cui 375 in bond. Fra cedola obbligazionaria e interessi da versare ad Oaktree, ogni anno Suning deve sborsare 50 milioni. A questa cifra va aggiunto il passivo della gestione ordinaria, la differenza fra entrate e uscite, che nelle ultime due stagioni è stato di circa 100 milioni l’anno. Colpa del Covid, certo, perché sono praticamente spariti i ricavi da stadio. Ma anche colpa di un monte-ingaggi che con la proprietà cinese è lievitato. Per riportare in equilibrio il bilancio due sono le strade possibili: ricapitalizzare o vendere asset, ovvero giocatori. La prima, a causa dei problemi a monte del gruppo Suning, è impercorribile. Resta la seconda. Da qui le cessioni di Hakimi e Lukaku.

Che probabilmente non basteranno. Perché l’incasso di 190 milioni è soltanto teorico. In realtà, la plusvalenza netta delle due vendite eccellenti è di circa 105 milioni. E l’incasso effettivo per i nerazzurri – sottratto quanto ancora spettava a Real Madrid e Manchester United, percentuali sulla rivendita, bonus futuri e contributo di solidarietà all’Uefa – scende a circa 75 milioni. Poi, certo, c’è l’impatto positivo sui conti derivante dallo scarico degli ingaggi di Hakimi e Lukaku (non dimentichiamo che l’Inter ha pagato in ampio ritardo alcune mensilità della passata stagione). Ma ora la squadra guidata da Simone Inzaghi dovrà colmare i vuoti lasciati sulla fascia destra e al centro dell’attacco. Dovrà farlo, sia per poter essere minimamente competitiva, sia perché i tifosi sono sul piede di guerra. E saranno costi, per cartellini e ingaggi, da mettere a bilancio.

Insomma, anche se è prematuro fare i conti, le cessioni di Hakimi e Lukaku rischiano di aver invertito inesorabilmente la curva di crescita dell’Inter in termini di risultati sportivi e di non aver per nulla risolto definitivamente i problemi a livello finanziario.

L’addio di Messi al Barça

Joan Laporta

Nelle stesse ore in cui Lukaku prendeva la strada che porta a Stamford Bridge, il Barcellona annunciava l’impensabile: dopo ventuno anni Messi non sarà più un giocatore blaugrana. Formalmente svincolato dal 30 giugno, l’asso argentino – che un anno fa aveva forzato la mano ai catalani per ottenere un ricchissimo rinnovo per una sola stagione – pareva aver ritrovato sintonia con l’ambiente e con il nuovo presidente Joan Laporta.

Ma nella serata del 5 agosto è arrivato il comunicato inatteso: “Sebbene sia stato raggiunto un accordo tra FC Barcelona e Leo Messi e con la chiara intenzione di entrambe le parti di firmare oggi un nuovo contratto, non sarà possibile formalizzare il tutto a causa di ostacoli economici e strutturali (regolamento del campionato spagnolo)”.

Le parti avevano raggiunto un accordo: 25 milioni a stagione, la metà di quanto aveva concesso la gestione precedente del Barça. Ma Laporta ha spiegato, in una conferenza stampa datata 6 agosto, che “purtroppo abbiamo ricevuto un’eredità disastrosa: il monte ingaggi al Barcellona rappresenta il 110% degli incassi del club. Non abbiamo margine salariale e il regolamento della Liga passa attraverso un fair play finanziario che pone dei limiti. Questo è il motivo per cui non abbiamo potuto rispettare l’accordo concordato con Leo Messi”.

E così l’argentino si è accordato – non prima di aver versato fiumi di lacrime in

Aleksander Ceferin

diretta televisiva – con il Psg: 35 milioni a stagione per due anni. Perché il club parigino non ha le mani legate – né in Francia, né in Europa – e può spendere e spandere come crede. Tanto la proprietà, il principe qatariota Nasser Ghanim Al-Khelaïfi, ricapitalizza. E il tanto decantato fair play finanziario? Bisogna chiederne conto al presidente dell’Uefa, Aleksander Ceferin. Ma ci torneremo. Per ora, al Psg è stato consentito di acquisire, in questa sessione di mercato, Winjaldum, Donnarumma, Sergio Ramos, Messi e Hakimi, tutti a parametro zero tranne il marocchino. Agli occhi dell’Uefa, evidentemente, tutti i club sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri.

Le mosse di Cvc

Laporta ha usato Messi come un bazooka per attaccare la lega spagnola e indirettamente l’Uefa. E boicottare l’accordo siglato dalla Liga con l’operatore di private equity Cvc Capital Partners.

Spalleggiato, non casualmente, dal Real Madrid di Florentino Perez, Laporta ha sparato contro l’intesa siglata sui diritti tv. “L’unica via possibile sarebbe stata accettare un’operazione che non reputiamo per niente interessante”, ha tuonato in conferenza stampa, “sia per l’importo, sia per ciò che comporta: ipotecare mezzo secolo dei nostri diritti tv”. Il riferimento è alla cessione a Cvc del 10% di una newco in cui la Liga, in cambio di 2,7 miliardi, farebbe confluire tutte le attività, controllate e joint venture.

L’accordo con Cvc è stato bocciato da Barcellona e Real Madrid. Il club della capitale spagnola ha tacciato l’investment company di essere “opportunista”. Chi conosce l’industria del private equity sa perfettamente che l’opportunismo è iscritto a lettere cubitali nel Dna dei fondi.

Cvc – che da sempre guarda con particolare attenzione al mondo dello sport – da quando è esplosa la pandemia da coronavirus Covid-19 sta effettivamente cercando di mettere le mani sul bottino dei diritti tv del calcio. Ci ha provato – in cordata con Advent International e FSI – con la Serie A italiana, ma si è scontrato con l’opposizione di alcuni club, capitanati dalla Juventus.

Accantonato l’assalto al pallone italiano, Cvc ci ha provato con la Bundesliga, il massimo campionato di calcio tedesco. Anche in questo caso, però, l’assalto è andato male: la lega tedesca ha deciso di cancellare l’asta tra fondi.

Javier Tebas

E ora è arrivata l’offerta alla Liga spagnola. Di nuovo, levata di scudi.

Javier Tebas, presidente della Liga, ha risposto a Laporta con un tweet polemico: “Ciao Joan Laporta, sappi che l’operazione Cvc non ipoteca i diritti televisivi del Barcellona per i prossimi cinquant’anni. Quello che fa è dare più valore a tutti i club e così puoi IPOTECARE le tue BANCHE e saldare il grande debito che hai. Così hai capito come funziona”.

Ma Barcellona e Real Madrid paiono un ostacolo troppo alto da essere superato da Tebas e Cvc. Così come al presidente della Lega Calcio, Paolo Dal Pino, non è riuscito – almeno per ora – di far passare l’accordo con l’investment company il cui ufficio italiano è guidato da Giampiero Mazza.

La SuperLega è viva e vegeta

Di traverso si è messa soprattutto (ma non solo) la Juventus. E qui si chiude il cerchio. Perché i bianconeri sono tuttora impegnati nella nascita della SuperLega, alleati di Barcellona e Real Madrid.

La Juventus ha varato un aumento di capitale da 400 milioni (quello che non ha potuto fare l’Inter targata Suning) e affidato la carica di amministratore delegato a Maurizio Arrivabene.

Andrea Agnelli, dopo aver perso il primo round della battaglia mediatica

Andrea Agnelli, Steven Zhang

contro Ceferin, ha fatto un passo di lato. Ma resta in prima linea nella guerra per arrivare alla SuperLega. L’8 agosto i bianconeri hanno giocato il trofeo Gamper a Barcellona. E, a margine del match, Agnelli ha incontrato Laporta e Perez, arrivato appositamente in Catalogna. Facile immaginare che i tre abbiano pianificato le prossime mosse. Anche perché – come avevamo raccontato a giugno – la Fifa ha una linea più morbida e possibilista sulla SuperLega.

Inoltre, nelle prossime settimane occorrerà verificare l’evoluzione di una vicenda passata quasi sotto silenzio. Alla vigilia degli Europei diversi funzionari dell’Uefa sono stati arrestati per corruzione dalla polizia cantonale del Vaud. L’organismo con sede in Svizzera non è affatto nuovo a episodi di corruzione, con inchieste che hanno toccato in passato i massimi vertici. Staremo a vedere a quale livello arriverà l’indagine in corso.

I numeri di Deloitte

Dai bilanci dei club a fine giugno stanno emergendo i danni del Covid, anche se finora abbiamo il quadro completa a un anno fa. Ma le prime indicazioni sui bilanci 2020/2021 sono terribili. Il Borussia Dortmund ha archiviato l’esercizio con una perdita di 72,8 milioni di euro, un rosso di un anno fa (-44 milioni). I ricavi sono scesi a 358,6 milioni rispetto ai 486,9 dell’anno finanziario precedente.

Certamente, dunque, l’esercizio 2020/2021 avrà registrato peggioramenti per tutti i club calcistici rispetto all’annualità precedente, già danneggiata pesantemente dal Covid. Secondo la 30esima edizione dell’Annual review of football finance dello Sports business group di Deloitte, l’industria del calcio europeo ha registrato una contrazione dei ricavi del 13% nell’anno della crisi, scivolando dai 28,9 miliardi di euro della stagione 2018-2019 a 25,2 miliardi di euro nel 2019-2020.

In termini assoluti, i cinque più grandi campionati europei (Premier League, Bundesliga, Serie A, Liga e Ligue 1, che rappresentano la quota record del 60% del mercato calcistico dell’area) hanno registrato il crollo peggiore, pari all’11% rispetto all’anno precedente, scendendo a 15,1 miliardi di euro dai 17 miliardi della stagione.

La più resiliente è la Bundesliga, che riporta il calo più contenuto dei ricavi totali (-4%), a 3,2 miliardi di euro, superando di poco la Liga (3,1 miliardi). Meno redditizia la Serie A, che segna una contrazione del -18% delle entrate, a 2,1 miliardi di euro. La Ligue 1 (l’unico campionato europeo ad aver annullato la stagione 2019/2020 in risposta alla crisi pandemica) aveva chiuso la stagione con ricavi in calo del 16%, a 1,6 miliardi.
Restando sulla massima serie italiana, secondo Deloitte il ritorno al calcio giocato a porte chiuse a partire dal 20 giugno 2020 ha contribuito a un calo dei ricavi da stadio pari a 50 milioni di euro (-18%), per un totale di 234 milioni.
La Serie A è stata anche l’unica delle big five a ridurre gli stipendi, con salari aggregati in calo dell’8% (147 milioni di euro), a 1,6 miliardi di euro. Ma non è bastato: l’effetto negativo del Covid sui ricavi, infatti, ha spinto il rapporto salari-entrate al 78%, la percentuale più elevata degli ultimi sedici anni. Anche perché, spiegano i ricercatori, “tre club hanno speso più per gli stipendi” di quanto abbiano “prodotto in termini di entrate”.
In altri termini, il calcio italiano si trova nella stessa situazione del Barcellona che ha dovuto rinunciare a Messi a causa di costi fissi (stipendi) più alti delle entrate. Quest’estate, non casualmente, hanno fatto le valigie Gianluigi Donnarumma e Rodrigo De Paul, oltre ad Hakimi e Lukaku. Il campionato italiano ha già perso quattro giocatori di alto livello. E alla chiusura del calciomercato manca ancora una ventina di giorni.

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