Italia in attesa del via libera del Comitato Iva della Commissione Ue per procedere con la contestazione alla controllata irlandese di Meta, la società Usa proprietaria di Facebook, Instagram, Whatsapp e Messenger, del mancato pagamento di 870 milioni di euro di Iva dal 2015 al 2021.
Lo hanno riferito a Reuters tre fonti a diretta conoscenza del dossier, aggiungendo che l’Agenzia delle Entrate, tramite il Dipartimento delle Finanze, nel settembre scorso ha inviato una richiesta di parere tecnico all’organo della Commissione Ue, vista l’innovatività della fattispecie contestata e le possibili conseguenze per l’intero settore delle multinazionali tech.
Il quesito tecnico riguarda “il trattamento Iva delle prestazioni di servizi online forniti dal social network a fronte della messa a disposizione dei dati personali dei propri utenti” precisa Reuters.
Parere tecnico atteso a inizio 2024
Non c’è una tempistica fissata per il parere, ma la richiesta è stata inviata oltre tre mesi fa, e una risposta potrebbe arrivare a inizio 2024.
Tale parere tecnico del Comitato Iva non è vincolante, ma con un “no” dell’organo consultivo europeo, difficilmente l’Agenzia delle Entrate potrebbe proseguire, vista la innovatività, la delicatezza del tema e le sue possibili conseguenze internazionali. E quindi, in assenza della contestazione di un illecito fiscale, anche l’inchiesta penale finirebbe di essere svuotata di significato.
Caso pilota per intero settore piattaforme social
Il punto centrale, che potrebbe far diventare questo un caso pilota per la fiscalità dell’intero sistema industriale delle piattaforme social e del settore tech, è il presupposto iniziale e fondante da cui è partito l’accertamento della Guardia di Finanza di Milano, che ha condotto all’apertura dell’inchiesta penale da parte della procura.
E’ l’assioma, cioè, che debbano essere tassate come transazioni commerciali le iscrizioni gratuite alle piattaforme online in cambio della cessione dei propri dati personali, che hanno un valore economico, visto che possono essere profilati.
Considerare questo “scambio” dati utente-azienda come una permuta di beni differenti, e quindi soggetta a Iva, è il punto cruciale che secondo gli esperti potrebbe determinare un cambiamento epocale nel settore tech, che non riguarderebbe solo Meta, ma tutte le aziende online simili, e non riguarderebbe solo l’Italia, ma, almeno, tutta Europa, visto che l’Iva è una imposta armonizzata europea.
Il no di Meta
Meta, in diverse note, si è ripetutamente detta “fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva“, aggiungendo che l’azienda paga tutte le imposte richieste in ciascuno dei paesi in cui opera ed è disposta a collaborare pienamente con le autorità.
L’azienda, in sostanza, non ritiene che ci sia un link diretto fra l’iscrizione gratuita degli utenti sulle sue piattaforme social e la cessione dei dati degli utenti, e quindi senza questo link diretto, ritiene non sia possibile chiedere il pagamento dell’Iva.
Link diretto fra gratuità e cessione dati?
Alla base dell’impostazione sostenuta dalla Gdf c’è però una sentenza del Consiglio di Stato, la 2631 del 2021, che non si occupava dell’Iva ma di una presunta pratica commerciale ingannevole, in cui i giudici stabilirono che queste operazioni (accesso alla piattaforma in cambio di cessione di dati personali) non erano gratuite ma bensì onerose.
Il punto centrale, secondo un esperto tributarista internazionale consultato da Reuters, è proprio la eventuale dimostrazione di un nesso diretto fra le due azioni.
Il nodo digital tax
Di certo la tassazione dei giganti Usa del web è stata motivo negli ultimi anni di forti tensioni fra gli Stati Uniti e l’Europa, con Washington che nel 2021 era arrivata a minacciare dazi nei confronti delle nazioni che avessero avuto una fiscalità troppo aggressiva nei confronti delle sue aziende.
La trattativa mondiale sulla cosiddetta “digital tax” nel luglio 2023 è stata prolungata di un altro anno, col conseguente congelamento della imposizione di questa tassa per tutto il 2024 da parte dei paesi aderenti all’Ocse.
L’Ocse infine a ottobre ha pubblicato un trattato – che deve ancora essere ratificato – che dovrebbe sostituire le tasse sui servizi digitali.