L’ultimo supporto dell’oro ha ceduto. La barriera a quota 1.680 dollari l’oncia (grafico sotto) è rimasta “immacolata” per due anni e mezzo. Non accadeva dall’8 giugno 2020, in piena epoca pandemica. E’ successo di nuovo, in avvio di seduta di Wall Street giovedì 15 settembre, l’ennesima in profondo rosso per il mercato americano nella settimana in cui ha lasciato per strada più del 7%.
Si tratta della quarta settimana negativa delle ultime cinque: l’oro valeva più di 2.000 dollari l’oncia a inizio marzo. Da allora ha smarrito oltre il 20%, confermandosi una sorta di specchio dell’azionario, situazione avviata già a partire dai primi effetti della pandemia: “Motivo per cui questa rottura al ribasso è anche un pessimo segnale per l’equity -spiega Enrico Gei, analista Scattacoltrend-. Proprio perché da tempo l’oro, ma anche l’argento, non è più considerato bene rifugio, si muove assieme all’azionario (grafico 1 e 2 sotto). Non dimentichiamoci che il metallo giallo raggiunse i massimi nel primo trimestre dell’anno in contemporanea al Nasdaq. Ecco perché questo minimo potrebbe anticipare ulteriori ribassi”.
Grf Oro by Scattacoltrend
Grf Nasdaq by Scattacoltrend
Addio estasi dell’oro dunque. Con le borse in bear market, l’idea poteva essere, come contromossa degli investitori, un tuffo a capofitto nei confronti del gold, una volta bene rifugio per eccellenza in momenti di incertezza economica. Lo è stato per decenni. L’equazione, all’epoca, era anche piuttosto semplice: giù l’azionario, su il metallo prezioso. Ma il Covid19 ha cambiato le cose. Anche lo yen giapponese e il bund tedesco hanno piano piano perso questo ruolo, lasciando il dollaro da solo. Il biglietto verde è arrivato ad apprezzarsi fino a quota 110 sul dollar index, ai massimi da aprile 2002 (grafico sotto), per quello che è il valore più alto degli ultimi vent’anni. In sostanza, oggi il mercato va così: quando vende azioni, compra dollari.
Il tiro alla fune tra oro e decennale Usa
Ma non è finita. Perché la caduta dell’oro racconta anche qualcos’altro. E cioè: non è più percepito dal mercato come asset class che protegge il portafoglio dall’inflazione. Un’inversione totale, praticamente a 360 gradi. A cosa è dovuto? Sostanzialmente, e ancora una volta, alle banche centrali. Che hanno innescato quello che Giuseppe Lauria, analista commodities indipendente chiama: “Il tiro alla fune tra oro e titoli di stato decennali americani”.
Spiega Lauria: “L’aumento dei tassi da parte delle banche centrali sta di fatto innescando un forte restringimento della liquidità. E questa minore emissione di denaro comporta una forza contrastante nei confronti della quotazione dell’oro. Il metallo giallo non può dare interessi o dividendi. E in un momento complicato come quello attuale, tra inflazione e crisi energetica, gli investitori preferiscono scegliere i rendimenti reali, ad esempio quelli del t-note Usa a dieci anni”.
È il cosiddetto costo-opportunità. Con i tassi negativi, ecco che l’oro potrebbe tornare a pagare. Se salgono invece, le posizioni si alleggeriscono ed è già successo in passato: l’oro raggiunse i 1.700 dollari l’oncia per la prima volta dal 2013 nella prima settimana di marzo 2020, allo scoppiare della pandemia. In quel periodo, il decennale era vicino allo zero. Oggi rende il 3,5% (grafico sotto), siamo ai massimi da aprile 2011. “L’aumento dei tassi di interesse statunitensi ed i rendimenti più elevati aumentano il costo opportunità nel detenere lingotti -continua Lauria-. E allo stesso tempo, un dollaro più forte rende l’oro meno attraente”.
L’oro non brilla più: il ruolo della Fed
Quota 2.100 dollari l’oncia, massimo raggiunto ad agosto 2020 e a marzo 2022, sembra lontanissimo. Insomma: la febbre dell’oro appare oggigiorno sempre un lontanissimo ricordo. Non solo. La Fed si riunirà il 21 settembre per il nuovo meeting. E tutto lascia pensare a un aumento dei tassi che non si vedeva da oltre trent’anni: un rialzo dell’1% tondo tondo. Una stretta monetaria ancora più forte. Una strozzatura della liquidità ancora maggiore che potrebbe generare nuovi alleggerimenti sull’oro, e questo potrebbe valere anche se alla fine il Fomc dovesse propendere per 75 punti base.
“La comunicazione della Federal Reserve lascia pochi dubbi -è il commento di Lauria-. Powell ha assicurato che farà tutto il necessario per frenare l’inflazione. Il responsabile della Fed di New York John Williams ha affermato che i tassi di interesse dovranno superare il 3,5% per contenere le pressioni sui prezzi. Il presidente della Fed di Richmond Thomas Barkin ha affermato che la banca centrale farà ciò che serve per frenare l’inflazione mentre l’omologo di Atlanta, Raphael Bostic, ha definito ‘incrollabile’ il dovere di frenare l’inflazione”. E’ chiaro che la banca centrale americana non si fermerà. Gli investitori sono avvertiti.
Quando si tornerà a parlare di febbre dell’oro?
La seduta di venerdì ha osservato un tentativo di recupero da parte dell’oro. Ma è andata a sbattere proprio contro quella barriera a 1.680 dollari l’oncia che dal punto di vista tecnico è divetata resistenza. Spiega Peter Kinsella, Global Head of Forex Strategy di Union Bancaire Privée: “Gli investitori non dovrebbero farsi prendere dallo sconforto per quanto riguarda l’ipotesi di un ribasso nel breve termine. La stretta anticipata delle banche centrali delle economie avanzate sarà in gran parte completata entro ottobre/novembre, il che significa che nel 2023 un’eventuale pausa nel ciclo di rialzi della Fed e una modesta debolezza del dollaro Usa dovrebbero, a parità di condizioni, trascinare l’oro verso la nostra previsione di 1.800 dollari l’oncia senza mai sfondare quota 1.600 al ribasso. Il tempo che ci separa da allora è molto lungo e quindi la gestione del rischio è fondamentale”.