Il 65% delle imprese italiane sono a conduzione familiare. I ricavi? Mediamente superiori alle altre, stando a una ricerca dell’Osservatorio Bocconi. Tradotto: in Italia le imprese gestite dalle famiglie funzionano bene. Tuttavia solo due aziende su dieci sono pronte al passaggio generazionale.
Il tema è attuale. Molto più di quanto possa sembrare. Il punto di domanda su cosa fare nel momento in cui l’azienda ha bisogno di diventare il più sostenibile possibile per continuare il suo percorso di crescita, spesso passa in secondo piano rispetto al business. Mica per niente appena un’azienda su dieci, dice Deloitte, ha formalizzato un percorso vero e proprio. Ecco perché Dealflower si è occupato del tema all’interno dell’evento Family Business che si è tenuto in sede a Milano, il 10 ottobre nello spazio eventi Dealflower. Per raccontare le esperienze delle varie realtà familiari. Scoprire i punti in comune, evidenziare i problemi maggiori e le strategie più efficaci.
Ad aprire il convegno, moderato dal direttore di Dealflower Laura Morelli, l’amministratore delegato Donato Parete: “In questi tre anni stiamo dando sempre più spazio alle imprese. Dealflower si distingue per raccontare il mondo finanziario milanese e non solo, dando spazio alle banche e fondi soprattutto. Ma Family Business diventerà un evento ricorrente, con imprese e professionisti. Vogliamo incontrare sempre di più gli imprenditori, da affiancare al racconto del mondo della finanza italiana”.
Balocco: “Una successione a cui non eravamo preparati”
La testimonianza di Alessandra Balocco, Ad e presidente di Balocco, parte da lontano: “Siamo nati come pasticceria nel 1927 con nonno Francesco Antonio. Papà era figlio unico e nel Dopoguerra, a 19 anni, decide di avviare un’attività industriale, aprendo un primo stabilimento produttivo. L’attività cresce, grazie all’investimento di mio padre nei prodotti di lievitanti per ricorrenze natalizie e l’espansione diventa nazionale con il Mandorlato. Il traguardo del Carosello negli Anni 80 è un punto di arrivo. Ma anche di nuovo inizio”.
Arriva così il momento della terza generazione. Continua infatti Balocco: “All’inizio degli anni 90 subentriamo io e mio fratello, che però perdo a causa di un incidente. Accade tutto all’improvviso, e Alberto è stato presidente e amministratore delegato fino al 2021. Io mi occupavo del marketing ed ero nel Cda, una grandissima perdita e una successione per niente preparata”.
Prosegue la manager: “Abbiamo fatto entrare mia nipote un anno fa e la famiglia, che si è unita, stretta nel dolore, è riuscita a fare di necessità virtù. Problematiche particolari? Nessuna, e la buona condizione dell’azienda ha agevolato: abbiamo investito 88 milioni di euro in tecnologia, che ci ha permesso di cavarcela anche nel 2022, anno tosto per i costi legati allo shock energetico”.
Casoli (Imar): “Finché non sei dentro, non sai cos’è l’azienda”
Il racconto di Michele Casoli, amministratore unico di Imar (Industria Mobile arredamenti), si distingue per il tema della scelta e della pianificazione: “Imar è stata fondata da mio nonno nel 1955. Mio padre ancora studiava ma già dava una mano. Il tema del coinvolgimento dei propri figli è centrale e per niente banale, specie quando l’azienda cresce tanto. Mio nonno ha lavorato con 3 persone, mio padre lo ha fatto con 30, ora siamo 110: le alternative certo non mancano”.
Qual è stata allora la scelta? “Eravamo tre figli in azienda -continua Casoli-. La lungimiranza è stata importante, perché il tema sostanzialmente è diventato: chi prende il comando? Noi ci siamo appoggiati a un consulente esterno, il quale ha dato una grossa mano in questo senso”. Con il senno di poi, la chiave è la preparazione: “Sin da giovani, se i propri figli hanno intenzione di entrare in azienda, occorre inserirli il prima possibile. Con piccoli ruoli, certo, ma va fatto. Affiancandoli magari a chi lavora da tempo nell’impresa e che sia per loro un punto di riferimento. Finché non sei dentro, non sai cos’è l’azienda”.
Ponti: “La soluzione esterna garantisce un’esperienza più ampia”
Spesso capita che chi fonda la società poi faccia fatica a lasciarla agli eredi. Magari perché figli e nipoti non sentono per forza l’esigenza di subentrare, e di voler continuare il percorso di crescita. Lara Ponti, Ceo di Ponti, racconta: “Dal bisnonno al nonno, poi al papà e lo zio, l’azienda si è espansa a livello nazionale e poi anche a livello internazionale. Da qualche anno tocca a me e a mio cugino il ruolo di amministratori. Ma per noi è stato diverso. Perché la scelta di mio padre e di suo fratello non è stata affatto una scelta. Dovevano farlo e basta. E se avessero dovuto scegliere forse avrebbero fatto altro”.
Ecco come allora il passaggio generazionale diventa centrale: “Probabilmente è anche per questo che a casa non si è mai parlato più di tanto di questa opportunità, non c’è mai stata nessuna spinta. Mio cugino è entrato dopo essersi laureato. Io invece ho lavorato 18 anni fuori. Per noi si porrà il tema del passaggio generazionale al contrario di nostro nonno. Che anzi non ha mai nascosto di essere tutt’altro che felice quando non è stato più lui a decidere. La chiave per la crescita di Ponti è stata la managerizzazione dell’azienda. E il fatto di aver inserito manager esterni per sfruttare più esperienze diverse e metterle al servizio dell’azienda stessa”.
Foglia: “L’onere fiscale non deve frenare il passaggio generazionale”
La scelta è uno dei temi più sentiti. Così come lo è anche il tema fiscale. Giuliano Foglia, socio fondatore di Foglia & Partners, spiega infatti: “La freddezza dell’imprenditore nel prevedere la continuità di impresa è una delle caratteristiche necessarie per evitare che l’onere fiscale vada a distruggere o annullare l’opportunità del passaggio generazionale. Ci sono tante varianti, a partire da cosa fare se la famiglia volesse uscire per monetizzare o magari per fare altro. Molto dipende dalla caratteristica anagrafica non solo dell’azienda, ma anche della società in generale”.
In altre parole, in che modo l’Italia si mette al servizio del family business? “Non dimentichiamoci -prosegue Foglia- che in Italia si tende a fare figli sempre più tardi, e con una condizione in cui gli eredi sono sempre più giovani diventa ancora più necessario garantire l’individuazione di un livello di management particolarmente capace, specie in un mondo sempre più globale. In questo senso il nostro paese ha strumenti unici, legati al private equity, che contribuiscono a valorizzare il passaggio generazionale, evitando la distruzione in caso di uscita di componenti della famiglia”.
Lippi (Labs Corporate Finance): “La famiglia? Spesso un tappo alla crescita”
Augusto Lippi, founder and managing partner Labs Corporate Finance, tira le somme e guarda anche ai casi in cui in famiglia non c’è modo di andar d’accordo: “Stasera abbiamo ascoltato casi virtuosi. Ma non è sempre così. Il passaggio generazionale è innanzitutto una situazione in cui prevale un’altissima emotività. Non sempre per garantire la continuità dell’azienda bisogna partire dalla finanza. Tutt’altro. Perché la famiglia può diventare un tappo gigantesco alla crescita”.
Casi specifici non mancano: “Ci sono gruppi a gestione familiare che fatturano discretamente, poi cedono a un fondo e in 4 anni creano più valore dei 35 anni precedenti. Il valore spesso c’è, ma viene ostacolato da pareri tanto diversi quanto legittimi. C’è chi è interessato e magari non è adatto. Chi invece ha il talento ma non la voglia. Chi vuole vendere una parte e chi quotarsi in Borsa. Inquadrare il tema e poi trovare la soluzione passa necessariamente anche da questi ostacoli”.