Da mesi ormai si parla della crisi dei semiconduttori, ovvero materiali speciali che si utilizzano per realizzare le componenti di base dei chip che ha colpito il mercato dell’elettronica di consumo (dai processori per computer e smartphone, a quelli per le automobili, passando per schede grafiche, modem). Un vero e proprio cortocircuito nella domanda-offerta, causato dalla pandemia, ha creato molta preoccupazione in diversi settori: dalla tecnologia di consumo ai server, fino ad arrivare all’industria automobilistica, dove la domanda sta crescendo in modo esponenziale. Allo scoppio della pandemia si riteneva ci sarebbe stato un netto calo della domanda, ma si è invece verificato il contrario. Alcuni produttori, per questo, avevano ridotto la propria capacità producendo un effetto boomerang sul mercato.
Sul chip crunch, come è stata chiamata questa crisi, continuano ancora oggi a pesare due fattori. Il primo, appunto, è un errore di calcolo: le aziende coinvolte nella produzione, a inizio pandemia, hanno tagliato le previsioni di vendita anziché aumentarle. Ma la domanda è aumentata in modo esponenziale per via dell’acquisto di nuovi dispositivi. Il secondo, è il continuo ricorso al telelavoro con i fornitori di parti elettroniche (EMS, electronics manufacturing service) che hanno riprogrammato la produzione di semiconduttori e chip per assecondare le richieste del mercato, puntando così su componenti per computer portatili, tablet e smartphone.
La sfida dei fornitori
In questa crisi sono quindi coinvolti i fornitori EMS che, di fatto, oltre al lato della produzione offrono assistenza con servizi come supporto per la progettazione, gestione delle catene di fornitura e logistica. Gli EMS sono sia grandi colossi che aziende medie specializzate nella produzione di prodotti ad alto volume e bassa complessità. Si comprende che gran parte dell’elettronica di consumo arriva dunque dalle loro fabbriche. Tuttavia secondo l’ultima review di Lincoln International, nonostante la crisi, non sembrano fermarsi i deal e gli utili per queste aziende. La crisi non è infatti sinonimo di perdita per queste azienda, anzi.
Piuttosto il chip crunch è sintomatico delle enormi sfide che la catena di approvvigionamento sta affrontando a livello globale. Per questo le aziende EMS si stanno evolvendo in questo panorama per soddisfare la domanda senza precedenti e affrontare la complessità globale dell’offerta. La carenza di manodopera, l’aumento dei costi delle materie prime e altre problematiche aggiungono urgenza agli investimenti in attività tecnologiche finanziate dai venture capital, come sottolinea il rapporto Emerging Tech Research sulle supply chain di Pitchbook relativo ai dati del secondo trimestre 2021. Non a caso in questo periodo le startup tecnologiche della supply chain hanno raccolto 7,9 miliardi di dollari in investimenti VC nel secondo trimestre, in crescita del 31,7% anno su anno.
Lo scenario economico
Sul fronte dei mercati, quello che potrebbe verificarsi nel breve termine è una probabile contrazione degli utili e sul valore delle azioni. Situazione che però andrà normalizzandosi con l’aumento della capacità produttiva. Tuttavia, un’idea sugli scenari futuri la dà il ministro dell’Economia di Taiwan Wang Mei-hua, che come riporta Reuters, sostiene che le aziende del paese asiatico si stanno impegnando a fondo per rispondere alle esigenze di mercato. Se continueranno, crede Mei-hua, il rapporto tra domanda e offerta in fatto di chip per auto potrà raggiungere un equilibrio entro gli ultimi tre mesi dell’anno.
Se Taiwan, con i suoi colossi tecnologici, potrebbe davvero scrivere la parola fine sulla vicenda della carenza di approvvigionamenti non va dimenticato che l’industria dei semiconduttori è anche al centro della sfida geopolitica per il dominio tecnologico tra Stati Uniti e Cina. Una situazione la cui soluzione non sembra dunque dietro l’angolo. Anche perché per mettere a terra un impianto produttivo di semiconduttori servono decine di miliardi di dollari. Negli Usa si sta, non a caso, investendo in tal senso: qualche mese fa, Intel ha infatti svelato un piano da 20 miliardi di dollari per l’apertura di un enorme stabilimento in Arizona. Intanto, secondo varie fonti, Western Digital sarebbe in trattative avanzate su una possibile fusione da 20 miliardi di dollari con il produttore di chip e partner giapponese Kioxia Holdings. Anche in Europa si cerca di tenere il passo: Bosch ha investito oltre un miliardo di euro in una nuova fabbrica di semiconduttori, a Dresda in Germania, inaugurata a giugno, per provare a ridurre la dipendenza dalle grandi aziende asiatiche che producono chip.
A questo scenario si somma comunque il fatto che gli investitori hanno comunque continuato a investire nei titoli tecnologici nonostante la crisi dei semiconduttori proprio in virtù della trasformazione digitale che sta vivendo l’economia globale. Alcuni titoli legati ai chip sono infatti al di fuori dei titoli tecnologici. Ad esempio, “due titoli giapponesi di semiconduttori non classificati come titoli tecnologici sono Hoya Corporation, un’azienda sanitaria, e Shin-Etsu Chemical, un produttore di materiali“, fa notare Laure Négiar, gestore del fondo Comgest Growth World di Comgest. “Queste aziende hanno costruito posizioni dominanti in aree mirate della catena del valore dei semiconduttori, offrendo anche agli investitori benefici di diversificazione nel caso in cui la tendenza digitale dovesse invertirsi temporaneamente. Tuttavia, poiché non sono propriamente intesi come titoli tecnologici, queste aziende vengono scambiate a multipli più bassi rispetto ai loro colleghi più noti, nonostante godano di una crescita degli utili e di margini che sono almeno pari a quelli del resto del settore“.
L’industria automobilistica
Al momento, a farne le spese in modo particolare è la produzione automobilistica che sta subendo grandi rallentamenti. I grandi colossi tech sono riusciti ad accaparrarsi forniture dai produttori asiatici, lasciano pochissimo per gli altri, fra cui l’automotive. Questa carenza, secondo il marketplace europeo AutoScout24, frena la produzione di auto nuove e spinge l’interesse dei consumatori verso il mercato dell’usato in Italia e in Europa: nel Bel Paese da inizio anno i prezzi medi sono cresciuti del +3,1% e a giugno i passaggi di proprietà sono aumentati del +15,5%.
Tutto questo sta avendo conseguenze importanti sul mercato, come il rallentamento o blocco della produzione di auto nuove o il ritardo nelle consegne. Le ultime previsioni di AlixPartners, infatti, mostrano come la mancanza di semiconduttori porterebbe a ben 3,9 milioni di veicoli prodotti in meno nel 2021 in tutto il mondo. Una situazione che sta mettendo alla prova le case automobilistiche, negli Usa e in Europa. Toyota, ad esempio, ha tagliato del 40% i programmi produttivi previsti per il mese di settembre: la decisione interessa, nel complesso, 14 impianti in tutto il mondo e in particolare in Giappone e Nord America.
Anche Fiesta ha sospeso la produzione l’ultima settimana di agosto. Anche Audi sta pagando la carenza dei chip, decidendo di prolungare le vacanze estive e di tagliare la produzione in due fabbriche. Anche per Volkswagen dopo la pausa estiva, le attività riprenderanno a ritmo ridotto e solo su uno dei turni lavorativi. Stellantis, infine, è stata invece costretta a fermare del tutto l’impianto di Rennes e parzialmente lo stabilimento di Sochaux.
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