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Benzina per accelerare od occasione persa in partenza? Patrimonio Destinato potrebbe mettere le ali all’industria del private equity italiana. Ma rischia di provocare contrasti insanabili fra pubblico e privato. I numeri dicono che lo strumento sembra poco adatto al quadro imprenditoriale italiano. E il solco con i Paesi europei rischia di allargarsi
L’industria del private equity italiana è a un bivio. La costituzione di Patrimonio Rilancio (detto anche Patrimonio Destinato) potrebbe mettere le ali a un settore che ha dimostrato, numeri alla mano, una resilienza straordinaria durante la crisi economica causata dalla pandemia da coronavirus Covid-19. Il private equity potrebbe (dovrebbe) diventare il volàno del rilancio delle imprese. Ma un utilizzo scorretto di Patrimonio Destinato, se il pubblico assumesse il ruolo di investitore preponderante, rischierebbe di affossare il private capital.
Un 2020 da incorniciare
Partiamo dai numeri del 2020. A sorpresa, ma non troppo, si è trattato di un anno eccezionale per il private equity italiano. Secondo quanto calcolato da Kpmg, il numero delle operazioni di M&A in Italia è sceso a 880 da 1.029 del 2019. Il controvalore dei deal è calato a 44 da 52 miliardi. Non si tratta di dati disastrosi, peraltro: siamo ancora sopra ai livelli del 2017.
Maximilian Fiani (nella foto a sinistra), partner di Kpmg, ha presentato questi numeri nel corso della Private Equity Mid
Market Marathon, organizzata il 19 maggio scorso da Aifi, l’associazione italiana del private capital. Fiani ha riportato le performance del private equity. I fondi hanno effettuato 56 disinvestimenti (+137%), per un incasso (cash in) di 5,274 miliardi, “il dato più alto di sempre”, ha sottolineato Fiani. Gli investimenti (cash out) sono cresciuti del 64%, a 1,625 miliardi, al massimo dal 2017.
Se si guarda ai rendimenti, il 2020 è stato un anno da incorniciare per il private equity. Kpmg ha calcolato che l’Irr lordo aggregato è stato pari al 32,1%, rispetto al 21,3% del 2019. “Per un dato simile bisogna tornare al 2002, quando, però, il cash in era 600 milioni”, ha notato Fiani. Il cash multiple si è attestato a 3,2 volte.
Scomponendo il rendimento in base al fatturato delle aziende oggetto delle operazioni di private equity, Kpmg ha calcolato che nella fascia oltre 250 milioni l’Irr è stato del 36,8% e nella fascia 50-250 milioni del 32,7%. Tutt’altra musica nei deal riguardanti imprese con un fatturato inferiore a 50 milioni: il rendimento è stato addirittura negativo (-1,6%). Fiani ha spiegato i numeri con i write-off, che si sono concentrati soprattutto sugli investimenti early stage. In altri termini, la pandemia ha travolto le aziende giovani, che sono state abbandonate dai fondi.
La latitanza dei deal di expansion
I dati di Kpmg s’incrociano con l’annuncio della costituzione di Patrimonio Rilancio. Questo perché i numeri del 2020 sembrerebbero scattare la fotografia di un’Italia caratterizzata da grandi e grandissime imprese e, di conseguenza, da mega-deal di M&A. Notoriamente, però, il quadro è ben diverso. Il nostro è il Paese delle piccole e medie aziende, quindi delle operazioni di piccole dimensioni.
Guardando alla tipologia dei deal dell’anno scorso, si nota che la categoria expansion – che di solito
coincide con gli investimenti di minoranza, prevalentemente in aumento di capitale – è latitante. Il direttore generale di Aifi, Anna Gervasoni (nella foto a destra), ha fornito uno spaccato delle operazioni di expansion: appena 40 deal (-17%), per la miseria di 354 milioni investiti (-61%). Il confronto con Francia e Germania è impietoso.
Perché il dato sulle operazioni di expansion è preoccupante? La risposta risiede nella già citata natura del tessuto imprenditoriale italiano, caratterizzato da pmi a controllo famigliare. Gli imprenditori tendenzialmente gradiscono un investitore finanziario se non è invasivo, ovvero se accetta di essere in minoranza, e se fornisce capitali per la crescita senza stressare la struttura finanziaria, cioè non spingendo sulla leva. In altri termini, in linea di massima l’azienda-tipo italiana gradisce un partner finanziario che entri in minoranza attraverso un aumento di capitale. E l’anno scorso questa tipologia di operazioni si è vista poco o nulla.
Il ruolo di Patrimonio Rilancio
Qui entra in gioco Patrimonio Rilancio. Il cda di Cassa Depositi e Prestiti ne ha approvato la costituzione il 18 maggio scorso. L’assemblea degli azionisti ha approvato la delibera il successivo 27 maggio. Il fondo ha una dotazione complessiva di 40 miliardi di euro, come stabilito dall’articolo 27 del decreto Rilancio, convertito in legge nel luglio 2020.
Il fondo sarà gestito da Cdp e ha l’obiettivo di ricapitalizzare le medie e grandi imprese italiane. Lo strumento, straordinario e a carattere temporaneo, sarà alimentato da risorse del ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef).
Il primo apporto a Patrimonio Rilancio, pari a 3 miliardi di euro, è stato deliberato tramite un decreto ministeriale del Mef.
L’iniziativa è rivolta alle imprese italiane con fatturato superiore a 50 milioni di euro, “che potranno rafforzare la struttura patrimoniale grazie a un’ampia serie di interventi, quali
strumenti ibridi di patrimonializzazione e aumenti di capitale”, si legge nel comunicato di Cdp.
Confrontando i dati di Kpmg con la configurazione di Patrimonio Rilancio si ode uno stridio piuttosto fastidioso. E’ lecito chiedersi perché il governo abbia ritenuto necessario varare uno strumento così corposo (40 miliardi) per patrimonializzare le imprese con un fatturato superiore a 50 milioni, che costituiscono l’eccezione più che la regola in Italia. E che, come detto, l’anno scorso hanno rappresentato la riserva di caccia prediletta dai fondi.
Le imprese piccole e micro rappresentano lo standard nel nostro Paese. E queste soffrono storicamente di carenza di capitali. La crisi da Covid-19 le ha ferite gravemente, quando non uccise. E i fondi di private equity sono mediamente troppo grandi per guardare a questo segmento di aziende. C’è un vuoto, enorme, che Patrimonio Rilancio non colma.
Oltretutto, i professionisti del private equity paventano il rischio che il fondo gestito da Cdp diventi un concorrente degli operatori privati. Il precedente del Fondo Italiano d’Investimento (Fii) dovrebbe fornire un insegnamento. Il Fii, infatti, partì come investitore in proprio, ponendosi come competitor dei capitali privati. La sollevazione dell’industria del private equity ha portato a una correzione progressiva del ruolo del Fii, sino a farne prevalentemente un sottoscrittore di altri fondi e un magnete di istituzionali.
Cosa farà Patrimonio Rilancio? Patrizia Micucci di NB Aurora è tranchant: “O ammazza il mercato del private equity o può essere il volàno per stimolare la crescita dell’industria”. Secondo Micucci, la strada dovrebbe essere quella del coinvestimento pubblico-privato, che “porterebbe risorse al private equity. Tra l’altro, questa modalità potrebbe avere vincoli alla leva per non stressare l’azienda sottostante”. Il fondo potrebbe essere “un incentivo per avere un turbo sui ritorni”.
Un’apertura a un cambio di direzione per Patrimonio Destinato è
arrivata dal direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini (nella foto a sinistra), che il 3 giugno scorso, durante un’audizione parlamentare, ha affermato che “si potrebbe pensare di abbassare la soglia” dei 50 milioni. Staremo a vedere.
Il confronto internazionale
La partnership pubblico-privato è la strada seguita dalla Francia per far decollare il private capital, in particolare il venture. Non è chiaro perché questa soluzione non sia stata adottata con decisione già dai tempi del varo del Fii. Un passo importante nella direzione giusta è stato fatto con il Fondo Nazionale Innovazione (Fni), focalizzato sul venture. Patrimonio Destinato rappresenta una grande occasione per far decollare il private capital. Ma c’è il rischio che vada sprecata.
I margini di crescita del private equity in Italia sono enormi. Secondo i dati pubblicati da Invest Europe, l’associazione di categoria a livello continentale, l’anno scorso gli investimenti hanno rappresentato lo 0,214% del Pil italiano. Siamo lontanissimi da Gran Bretagna (1,394%) e Francia (0,819%), mentre la Germania (0,299%) è relativamente vicina.
Se si guarda ai soli investimenti di private equity della tipologia growth, ovvero capitali per la crescita, ciò di cui maggiormente hanno bisogno le aziende italiane, nel 2020 l’Italia è allo 0,017% del Pil. Un abisso ci separa da Gran Bretagna (0,254%) e Francia (0,180%). La Germania non è lontana (0,0,23%). Ma è amaro constatare che sugli investimenti growth siamo alla posizione 17 in Europa, dietro a Ucraina, Danimarca e Polonia.
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