La settimana finanziaria è stata segnata, fra le altre cose, dalle trimestrali delle banche statunitensi che sono spesso degli ottimi indicatori dell’andamento del mercato bancario e in generale sullo stato dell’economia.

Su quest’ultimo fronte, i risultati dei principali istituti di credito Usa dimostrano come il mercato dei consumi sia ripartito. Con la liquidità disponibile, perché risparmiata o perché fornita dallo stato tramite sussidi, i cittadini statunitensi vanno al ristorante, prenotano le vacanze, fanno shopping. Lo dimostrano i dati delle carte di credito di Jp Morgan e Citi: la prima ha registrato una spesa per 223,7 miliardi di dollari, la seconda per 151,1 miliardi. In entrambi i casi si tratta di valori superiori al periodo pre-pandemico. Numeri significativi anche perché il settore dei pagamenti è quello più presidiato dal mondo fintech, ma le banche americane sembrano tenere il colpo. E questo non può che essere un segnale anche per gli istituti europei.

Dove invece perdono terreno è nel lending, soprattutto consumer. A marzo 2021 il debito totale delle carte di debito negli usa era di 749 miliardi, a gennaio 2020 era pari a 913 miliardi. Un gap ancora notevole che si riflette sui conti. JPMorgan, ad esempio, ha registrato nel trimestre profitti per 11,95 miliardi di dollari – più che raddoppiati – ma ricavi per 30,48 miliardi, in calo dell’8%, come risultato di minori margini sui prestiti e anche sul trading. Qui la volatilità – o l’eccessiva calma – dei mercati ha schiacciato i rendimenti, soprattutto nel reddito fisso. Citi, ad esempio, ha visto i ricavi dal trading scendere le 33% dal record dello scorso anno, Goldman Sachs del 32% a 4,9 miliardi e JPMorgan del 30% a 6,79 miliardi.

Il comparto d’oro per le banche si conferma l’investment banking. Da una parte i ceo delle aziende americane, memori della lezione del Covid-19, stanno guardando o hanno già messo in pista acquisizioni o fusioni, per consolidare il posizionamento o entrare in segmenti che la pandemia ha reso importanti, oppure alla Borsa. Dall’altra i private equity – gonfi di liquidità – la stanno facendo da padrone (anche in Italia). A livello globale il volume delle operazioni ha toccato quota 1,42 mila miliardi di dollari nel trimestre e quasi 3mila miliardi in questi primi sei mesi dell’anno stando a Dealogic. Le banche non possono che aver seguito i soldi, come si dice. Tanto che, per fare qualche esempio, gli investment bankers di Goldman hanno portato nelle casse della banca 3,61 miliardi in fees nel secondo trimestre 2021 (+36%). In JPMorgan le fee sono cresciute del 25% a 3,57 miliardi.

Tutti questi dati ci dicono in buona sostanza che c’è molta fiducia sulla ripartenza a tutto tondo del comparto bancario e quindi dell’economia – al netto del rientro o meno della pandemia di Covid-19 che sembra non volersene andare. Le nuove varianti di Covid-19 potrebbero infatti bloccare una ripresa globale, che comunque presenta ancora elementi di criticità. La pandemia ha stimolato i colli di bottiglia della catena di approvvigionamento che stanno rallentando parti dell’economia, come i concessionari di auto che non possono procurarsi abbastanza auto o la crisi dei microchip. Molti lavoratori licenziati non riescono a trovare un lavoro adatto alle loro competenze o esigenze nel mondo post-Covid e molte aziende non riescono a trovare lavoratori.

Spazi però ce ne sono. E le banche possono intercettare i flussi. Non nel lending, che come abbiamo visto è sempre meno attività core non solo per un cambiamento delle abitudini dei consumatori ma anche per l’ascesa di alternative lenders di ogni forma e dimensione, ma nell’assistenza alle aziende nei loro percorsi di crescita. E quindi nella rete che la banca sarà in grado di tessere.

 

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