Grandi manovre sul risparmio gestito, che da diversi anni costituisce uno dei serbatoi più premianti per il conto economico degli istituti di credito.
È del resto sufficiente scorrere i bilanci che le grandi banche commerciali hanno riportato negli ultimi cinque anni per vedere quanto incidano le commissioni incamerate dalle divisioni di asset management attraverso i prodotti di risparmio gestito. A ciò si aggiunge il fatto di non essere capital intensive, ossia di non richiedere accantonamenti che gioco forza finiscono per limitare gli impieghi: questi ultimi altro non sono, principalmente, che il sostegno all’economia reale fornito dagli istituti di credito sotto forma di mutui e prestiti personali alla clientela retail e corporate.
Risparmio gestito, ecco chi potrebbe dare vita al risiko
Ma quali sono gli attori principali che potrebbero dare vita al risiko del risparmio gestito? L’attenzione si focalizza essenzialmente su Banca Generali, Unicredit, Mediobanca e Anima.
Banca Generali e Mediobanca
Un paio di anni fa Mediobanca aveva messo nel mirino Banca Generali dopo che Leonardo Del Vecchio -spalleggiato successivamente da Francesco Gaetano Caltagirone– aveva rimproverato Piazzetta Cuccia di beneficiare di una forte rendita di posizione a conto economico in virtù del 13% circa che la merchant milanese detiene nel capitale del Leone. Un flusso inesauribile di dividendi da Trieste a Milano che negli ultimi anni per Mediobanca è valso in effetti circa il 30% dell’utile netto e che, sempre secondo Del Vecchio, avrebbe in parte spinto l’ad Alberto Nagel a non assumersi rischi eccessivi per crescere anche attraverso operazioni di M&A importanti.
All’epoca dei fatti, Mediobanca aveva ipotizzato di ridurre parzialmente il proprio peso nell’azionariato delle Generali se fosse riuscita a trovare un asset maturo in grado da subito di garantire quel flusso cedolare che sarebbe venuto a mancare allentando la presa su Trieste. Un identikit che si sposava a pennello con Banca Generali e per la quale Piazzetta Cuccia si mosse ufficialmente. La proposta d’acquisto è stata tuttavia respinta al mittente soprattutto per la ferma opposizione in cda di chi aveva contestato a Mediobanca la rendita di posizione. Il deal al momento sembra essere su un binario morto, anche se la scomparsa di Del Vecchio potrebbe tornare a mescolare le carte nei prossimi mesi.
Il turnaround imposto da Nagel all’istituto dopo esserne diventato ad a fine 2008 ha portato aveva portato il gruppo di via Filodrammatici a dotarsi di una banca retail (CheBanca!), oltre che a rafforzare attività di asset e wealth management, facendo acquisizioni anche all’estero e non facendo mai mistero di voler crescere ulteriormente in quest’ultima direzione.
Muovono proprio in questa direzione gli approcci -rivelati lo scorso anno dal numero uno di Banca Mediolanum, Massimo Doris– che Mediobanca aveva tentato nei confronti dell’istituto di Basiglio. Una proposta di nozze che, almeno per il momento, Mediolanum ha garbatamente (ma anche fermamente) declinato.
Inoltre va detto che oltre a essere Mediolanum e la famiglia Doris azionisti di Mediobanca e presenti nel patto di consultazione dell’istituto, fino a qualche anno fa i due gruppi hanno anche condiviso la partecipazione in Banca Esperia, jv 50/50 nel private banking creata a inizio millennio. Il sodalizio è stato sciolto a fine 2016, quando Piazzetta Cuccia ricomprò il 50% di Esperia da Mediolanum per 141 milioni, creando il brand Mediobanca Private Banking.
Unicredit
L’arrivo di Jean Pierre Mustier alla guida di Unicredit nell’autunno del 2016 coincise con severe pulizie a bilancio e con il rafforzamento della situazione patrimoniale del gruppo. Portato a termine un aumento di capitale monstre da 17 miliardi nel febbraio dell’anno successivo, il banchiere francese iniziò a fare cassa anche cedendo alcuni “gioielli della corona”, tra cui la partecipazione in FinecoBank (a onor del vero, il disimpegno su questo fronte era già iniziato sotto la gestione del precedente ad, Federico Ghizzoni) e soprattutto con la vendita di Pioneer.
Il gigante del risparmio gestito venne ceduto a fine 2016 ad Amundi per poco più di 3,54 miliardi di euro. La mossa di Mustier tolse tuttavia a Unicredit una delle fonti su cui negli anni successivi le grandi banche commerciali hanno tratto grandi soddisfazioni a conto economico ed è stata anche una delle ragioni per cui l’istituto di Piazza Gae Aulenti ha di fatto giocato soprattutto in difesa fino al nuovo cambio di timone.
Con la scelta caduta su Andrea Orcel, il “Ronaldo dei banchieri” come viene spesso definito sulla stampa, l’istituto ritorna a macinare numeri e a correggere in corsa alcune delle fasi di dimagrimento che Mustier aveva imposto. Proprio la scelta di spossessarsi della fabbrica prodotto nel risparmio gestito è una delle decisioni su cui Unicredit potrebbe fare un’inversione a U.
Va letto in questo senso il recente accordo con Azimut che, a tendere, potrebbe evolvere in forme più profonde di collaborazione. Al momento la lettera di intenti firmata tra le parti definisce i principi fondamentali per la distribuzione in Italia di nuovi prodotti di risparmio gestito. Grazie a questo accordo, la banca di Piazza Gae Aulenti amplierà ulteriormente le proprie attività lungo la catena del valore e rafforzerà l’impegno a offrire i prodotti migliori ai suoi 7 milioni di clienti in Italia.
La partnership consentirà inoltre a Unicredit di estendere la propria offerta, compresa la potenziale distribuzione dei suoi prodotti bancari ad Azimut, e sottolinea l’obiettivo strategico della banca nel conferire maggior valore e dimensione alla sua attività di gestione del risparmio, a beneficio dei clienti. C’è chi scommette che questa operazione in futuro potrebbe dare vita a qualcosa di più organico e strutturato.
Anima
Altro soggetto finito sotto i riflettori è Anima, dopo che Fsi ha acquistato una partecipazione complessiva del 7,2% (portata poi pochi giorni dopo al 9% del capitale). La mossa sembra voler lanciare un messaggio chiaro ai francesi del Credit Agricole, socio forte di Anima (tramite Amundi).
Non a caso, a pochi giorni dall’ufficializzazione dell’ingresso nel gruppo guidato da Alessandro Melzi d’Eril (foto) si è registrata la mossa di Poste Italiane (11,06%) e Francesco Gaetano Caltagirone (3,2%) che hanno stretto un patto parasociale.
L’idea, dicono i ben informati, è quella di coagulare azionisti italiani ( su questo fronte si può annoverare, oltre al 9% di Fsi, anche il 20,6% di Banco Bpm) a difesa dell’italianità di uno dei maggiori gruppi nostrani del risparmio gestito, finito nel frattempo nelle mire dell’Agricole.