Non è una banca ma si comporta come se lo fosse. No, non è un indovinello, ma la sintesi del modello di business usato da una delle più famose e grandi caffetterie al mondo: Starbucks.

La catena fondata a Seattle nel 1971 ha infatti un programma fedeltà (quasi) unico nel suo genere. Oltre a offrire, come fanno moltissimi altri competitor, una fidelity card collegata a un app per accumulare punti e accedere a offerte e ad altri prodotti omaggio, quella di Starbucks permette anche di caricare denaro sul proprio account. In questo modo i consumatori possono pagare direttamente dall’app del telefono senza la necessità di avere con sé contanti o carte di credito.

Una possibilità che è piaciuta molto ai clienti visto che oggi circa il 30% delle vendite totali avviene proprio tramite app. E il numero dei consumatori che scelgono questa soluzione sembra essere in aumento: si stima che solo negli Usa e in Canada il 41% dei clienti di Starbucks per pagare usa proprio la carta fedeltà. Il motivo di questo successo è legato alle dimensioni globali della catena che fanno sì che sia possibile trovare store del marchio praticamente in ogni continente. Così i clienti sono spinti a caricare soldi, senza troppi pensieri, sul proprio account perché sanno con certezza che prima o poi, nel loro paese o altrove, li useranno.

Oltre 1 miliardo a tasso zero

Questa convinzione ha fruttato a Starbucks negli anni un saldo compreso tra 1,2 e 1,5 miliardi di dollari: una cifra che si avvicina a quella delle attività totali di una banca medio-piccola. Nel caso della catena si tratta di denaro che i clienti hanno momentaneamente depositato per scambiarlo prima o poi con del caffè, ma che ora è a tutti gli effetti di proprietà della catena di caffetterie, come una sorta di prestito con un tasso vantaggiosissimo: lo 0%.

Questo sistema garantisce alla società un’enorme liquida che può usare per fare (più o meno) quello che le pare, senza peraltro dover rispettare le regole previste per le banche dalla regolamentazione finanziaria. Starbucks, per esempio, non è obbligata a tenere da parte una quota di denaro qualora dovessero verificarsi dei prelievi di massa. Tanto più che i soldi che i clienti depositano sul proprio account non possono più essere prelevati sotto forma di denaro ma solo convertiti in caffè o altri prodotti di caffetteria.

Il “breakage” frutta ben oltre i 100 milioni

Qualcuno potrebbe obiettare che ogni cliente potrebbe utilizzare tutti i proprio crediti lasciando così Starbucks senza questa preziosa riserva. In realtà le statistiche dicono che circa il 10% del denaro che depositiamo o carichiamo su carte regalo o fedeltà viene sistematicamente dimenticato o perso perché scadono i termini per il suo utilizzo. Un fenomeno che ha tecnicamente il nome di “breakage”, rottura. “Negli anni fiscali dal 2017 al 2019, Starbuck ha dichiarato un reddito da rotture rispettivamente di 104,6 milioni di dollari, 155,9 milioni e 125 milioni”, si legge in un articolo di La Repubblica sul tema.

Il caso Caffè Nero

Questo sistema, di cui Starbucks è attualmente il caso di maggior successo, sta via via venendo adottato da molti altri brand e gruppi del settore food, soprattutto nel comparto caffetteria.

Un esempio è la catena Caffè Nero. Fondata nel 1997 da Gerry Ford, il marchio ha oggi più di 1000 caffetterie tra Stati Uniti, Europa e Medio Oriente. Oltre a offrire, come Starbucks, caffè e altri prodotti dolci e salati, anche Caffè Nero ha scelto di creare per i propri clienti un programma fedeltà con relativa app da cui fare acquisti e una serie di carte regalo su cui caricare denaro da spendere nei punti vendita. Le carte, si legge nel sito della società, sono ricaricabili e quindi riutilizzabili.

Non sappiamo quante siano e a quanto ammontino i crediti caricati dai clienti, tuttavia il modello e l’obiettivo sembra lo stesso di Starbucks: una società che si occupa di tutt’altro cerca di usare il fintech per modernizzare i propri servizi e, indirettamente, creare nuove forme di guadagno. E non si tratta di casi isolati. Esiste anche un termine per definire questo processo che è BaaS: Banking as a service. Indipendentemente dal settore in cui si opera sono infatti sempre di più le imprese che puntano su soluzioni prese in prestito dalla finanza per migliorare il proprio business.

I guadagni di Apple Pay

Un altro esempio piuttosto noto è Apple Pay. Il sistema di pagamento mobile che fa capo alla multinazionale Californiana è un servizio attivo dal 2014 che consente di fare pagamenti contactless con iPhone e iWatch attraverso le principali carte di credito, debito o prepagate. Apple, come molti altri servizi simili, si appoggia alle banche ma, a differenza degli altri, percepisce una commissione su ogni transazione. Un meccanismo che l’ha portata a conquistare a tutti gli effetti una quota della cosiddetta ‘economia dei pagamenti’. La cifra precisa è rimasta segreta finché un articolo del Financial Times ha rivelato che secondo due fonti che conoscevano i termini dell’accordo, Apple riceveva “15 centesimi su ogni acquisto di 100 dollari”. In pratica le banche hanno accettato di cedere una parte della propria commissione pur di essere coinvolte nel sistema di pagamento di Apple e offrire ai loro clienti la possibilità di sostituire le carte fisiche con lo smartphone, modernizzando così indirettamente il loro sistema di pagamento.

Se Starbucks e Apple rappresentano sicuramente due delle idee più riuscite e d’avanguardia del settore, sono tantissimi i negozi, le catene e i grandi brand che intendono puntare su soluzioni simili per fidelizzare (e non solo) i propri clienti. Una ricerca della società di fintech Finastra ha rivelato che “l’85% delle aziende utilizza già o intende utilizzare una qualche forma di BaaS nei prossimi dodici-diciotto mesi”. Secondo il report si tratta di un mercato che vale 7mila miliardi di dollari e che è destinato a crescere ulteriormente: circa il 70% nei prossimi tre anni.

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