Non ha ancora mosso un dito, la Fed. Nel senso che la conferenza stampa di Jerome Powell si terrà mercoledì. Inoltre, il mercato ha già prezzato da settimane il fatto che l’intenzione della banca centrale americana sia di alzare i tassi di almeno 50 punti base. Ciò nonostante, pur essendo “immobile”, la Federal Reserve, o forse sarebbe meglio dire l’attesa per il meeting della Federal Reserve, sta letteralmente schiacciando i mercati, ormai in pieno regime risk off.
Il black friday di venerdì 10 giugno si è trasformato in black monday. Prima le borse asiatiche (Tokyo -3%, Hong Kong -3,5%), poi l’Europa (Milano -2,8%), infine Wall Street, che naviga in acque agitate (il future del Nasdaq è sotto del 3,8% alla chiusura delle borse del vecchio continente). E allora cos’è che sta succedendo? Che cosa preoccupa gli investitori al punto tale da innescare nuovi ribassi sul mercato in un momento in cui è già molto esposto a una volatilità ribassista?
Cosa preoccupa gli investitori?
Il timore è che la Fed, a fronte di un’inflazione più alta delle aspettative per quanto riguarda maggio (+8,6%), possa decidere di strozzare ulteriormente il credito, piazzando un ritocco al rialzo dei tassi (grafico sotto) non più di 50 punti, bensì di 75 punti base. Questo significa, in buona sostanza, che mentre il potere d’acquisto delle famiglie si sta erodendo sempre di più, contemporaneamente la banca centrale sta alzando il costo del denaro come non accadeva da anni, con l’obbiettivo di “uccidere” la domanda il più possibile per far scendere i prezzi, ma con il pericolo, di fatto, di una stagflazione sempre più vicina (inflazione alta e crescita/domanda bassa) e una recessione per il prossimo anno sempre meno improbabile.
Risk off, la differenza tra Usa ed Europa
In un contesto del genere, la propensione al rischio viene letteralmente cancellata dal vocabolario degli investitori (da qui la definizione risk off), che decidono di ritirare il proprio capitale da ogni investimento percepito come non sicuro. Occorre tuttavia precisare che, al contrario dell’Europa, negli Stati Uniti la disoccupazione è ai minimi termini (3,6%, grafico sotto), i salari rimangono alti e i sussidi elargiti durante la pandemia sono stati molto generosi. E infatti, ancora più della Fed è la Bce che preoccupa. Perché come l’istituto americano, anche l’Eurotower ha deciso di alzare i tassi, in un contesto però dove la disoccupazione è molto più alta, i salari non sono paragonabili a quelli statunitensi così come i sussidi elargiti durante il lockdown.
In questo contesto, la paura non sta colpendo soltanto il mercato azionario, solitamente il più esposto alle dinamiche del risk off. Ecco allora sette asset che hanno raggiunto un vero e proprio livello di emergenza, segnando record negativi che non venivano aggiornati, in alcuni casi, anche da oltre un ventennio. E che spiegano, forse meglio di altre dinamiche, il motivo per cui l’economia globale sta facendo passi indietro come non se ne vedevano da quasi mezzo secolo.
Dollaro mai così forte negli ultimi vent’anni
Il dollaro americano è l’unico bene rifugio percepito dal mercato. Nel giro di due sedute è tornato al top dal 2002. Questo significa che la valuta non è mai stata così forte negli ultimi 22 anni. Alla faccia di chi parla di dedollarizzazione in corso.
Il cambio tra dollaro e yen è ai massimi dal 1998 (135,19, grafico sotto). Questo significa che la valuta giapponese non è mai stata così debole negli ultimi 24 anni come oggi. Qui le dinamiche sono due. Alla grande forza del biglietto verde si sovrappone la politica monetaria ultra accomodante della banca centrale nipponica. In Giappone l’inflazione è ai minimi termini se rapportata a quella in Ue, Gran Bretagna o Stati Uniti: appena sopra il 2%, questo permette alla Bank of Japan di mantenere basso il costo del denaro, e con esso il rendimento dei titoli di stato, attorno allo 0,7%, comunque ai massimi dal 2015.
Rendimenti e spread, per l’Italia un salto all’indietro di nove anni
Il btp italiano ha superato il 4% di rendimento. Questo vuol dire che il nostro decennale si sta svalutando come mai non accadeva dal 2013. All’epoca eravamo in piena crisi del debito, e la Banca Centrale Europea non aveva ancora avviato il Quantitative Easing.
Il bund tedesco ha raggiunto l’1,6% di rendimento: mai così alto da maggio 2014. Solitamente il decennale tedesco viene considerato un bene rifugio (così come lo yen giapponese). Questa crisi però ha origini differenti rispetto a quelle precedenti, un vero e proprio concentrato di dinamiche geopolitiche (la guerra Russia-Ucraina), sanitarie (il Covid e la ripresa post pandemia) e macroeconomiche (inflazione). Ed è anche per questo che gli scenari di mercato sono completamente diversi da quelli osservati in passato.
Lo spread ha sfiorato i 250 punti base, al top da maggio 2020, quando ancora eravamo in piena pandemia, e i vari lockdown avevano paralizzato l’economia dei vari paesi europei. Sull’Italia pesa sempre l’esposizione maggiore al debito pubblico. All’epoca però il decennale italiano (grafico sotto) rendeva il 2%, mentre il bund viaggiava in territorio negativo: -0,6%. Evidente come all’epoca il titolo di stato tedesco era ancora un bene rifugio, al punto che gli investitori accettavano di collocare il capitale esu un asset in perdita piuttosto che tenerlo fermo o investirlo altrove.
Decennale Usa, mai così svalutato dal 2011
Il t-note americano ha raggiunto il 3,33%, per una svalutazione che non si vedeva da aprile 2011. Questo significa che il decennale Usa non raggiungeva un valore così basso da undici anni (grafico sotto). Sul titolo di stato statunitense, come già spiegato, pesano i timori per la politica aggressiva della Fed, che potrebbe alzare i tassi fino a 75 punti base nel meeting di mercoledì: trattasi di una mossa che mira a restringere fortemente il credito, e quindi anche la domanda, a fronte a un’inflazione che, negli Stati Uniti, ha aggiornato livelli alti come non si vedevano dal 1981.
Da novembre 2021, il bitcoin perde il 10% ogni mese
Il Nasdaq ha rotto al ribasso gli 11.000 punti. Questo significa che l’indice tecnologico non è mai stato così debole come oggi negli ultimi due anni. L’ultima volta che ha viaggiato sopra i diecimila era novembre 2020, momento della seconda ondata Covid poco prima dell’annuncio del vaccino da parte di Pfizer.
Il Bitcoin (grafico sotto) non è mai stato così vicino ai 20.000 dollari da dicembre 2020. Questo significa che la criptovaluta più scambiata al mondo ha perso, negli ultimi 7 mesi, quasi il 70% del suo valore. In pratica, ha una media di circa il 10% di svalutazione ogni mese. Solo nella giornata del 13 giugno ha perso il 13,7%. Il risk off ormai innescato sul mercato sta inducendo gli investitori a rimuovere i propri capitali dagli asset più rischiosi. E il Bitcoin appartiene a questa categoria, assieme alla seconda cripto più scambiata, Ethereum, che mica per niente perde oltre il 14% a 1.230 dollari, anche in questo caso siamo ai minimi da gennaio 2021.