Creare un polo vinicolo industriale integrato e sostenibile. Che possa catalizzare e valorizzare le risorse inespresse del territorio. Questa è la missione di Terre d’Oltrepò. Il rilancio passa da un piano quinquennale, che si concentra sull’incremento della capacità produttiva, un focus sulla qualità del processo, trasparente, certificato a ogni passo, e una strategia che mira all’aggregazione e alle potenzialità ancora inespresse legate alla possibilità di fare sistema.
Lo ha illustrato Umberto Callegari, Ceo di Terre d’Oltrepò. Nell’ambito di un contesto di mercato, quello del vino in Italia, che sta attraversando un periodo di notevole discontinuità “influenzato da fattori climatici, economici, geopolitici, regolamentazioni e generazionali”. Il valore del settore nel 2022 si è attestato all’incirca a quota 14,2 miliardi di euro, il 60% del quale proviene dall’export (circa 8 miliardi) ma che ha ancora ampi margini di crescita, basti pensare al fatto che Stati Uniti, Uk e Germania assorbono il 50% dell’export, mentre i primi sette mercati del vino italiano assorbono il 70% del totale.
I numeri sono importanti dunque ma le potenzialità rimangono. Il modello di riferimento, come sottolinea lo stesso Callegari, è quello dello champagne, la cui resa è per l’export è di oltre 9,4 dollari per litro, al contrario delle bollicine italiane, che non supera i 4 dollari per litro.
“L’Oltrepò? Impariamo a fare sistema o il futuro non sarà roseo”
Aumentare la capacità produttiva, spiega il manager, è possibile anche attraverso l’acquisizione di nuovi soci sui 5.000 ettari di contribuzione attuale, che includono sia l’Oltrepò Pavese che i Colli Piacentini. Uno dei temi da risolvere è quello della dispersione del capitale investito nella zona, da ridurre drasticamente per aumentare il ritorno sugli investimenti. Il costo del capitale investito, prosegue Callegari, è superiore al suo ritorno, principalmente a causa della polverizzazione delle aziende che, incapaci di fare sistema, generano un capital burn insostenibile.
Passare da una gestione legata all’imprenditorialità familiare a un’estensione dell’industria manifatturiera e alimentare. Questa è la ricetta di Terre d’Oltrepo. Con investimenti mirati in operations, tecnologia e cultura: “Siamo la più grande cooperativa vinicola della Lombardia. Il vino italiano ha avuto uno sviluppo incredibile nel mondo ma questo non vale per l’Oltrepo. La mia è stata una scelta di cuore -continua Callegari, ex worldwide commercial lead di Microsoft Customer Transformation– essendo nato e cresciuto a Casteggio, nel cuore dell’Oltrepo. Il vino è un’assoluta eccellenza ma oltre ai pregi esistono anche i difetti, ovverosia le idiosincrasie, gli effetti di un sistema culturale italiano molto orgoglioso, differente e diffidente oltre che molto polverizzato e quindi poco capace di fare sistema. Ogni centro ha un orgoglio ed una forza culturale che spesso scadono nel campanilismo”.
Differenze tra primo produttore italiano e francese
Si torna così al modello francese. Il primo produttore italiano è Civ, e fa 700 milioni di euro mentre il primo produttore mondiale, Castel Group, transalpino, genera circa 16 miliardi di fatturato annui. “Va creato un polo industriale capace di catalizzare la nostra capacità produttiva e di creare un cambiamento culturale di modello operativo passando da logiche di puro prodotto a logiche di servizio end to end, da aggiungersi all’investimento in eccellenza operativa e branding. Oppure il futuro non sarà roseo, non solo per l’Oltrepò ma, credo, per il sistema del vino italiano”, ha avvertito Callegari. Altri numeri che vanno in questa direzione sono quelli relativi alla redditività media per ettaro: il vigneto Italia occupa solo il terzo posto dietro Francia e Nuova Zelanda. A fronte di una media di 27mila, quella dell’Oltrepò è pari a 5.000, circa un settimo.
Tra i progetti di Terre D’Oltrepò è la creazione di una piattaforma vinicola in grado di fornire operations as a service per soci e partner, specialmente per il metodo classico da uve Pinot Nero, rappresentando il 75% della produzione italiana e la quarta regione al mondo per questo vitigno, primo passo verso la certificazione dell’azienda come capofila della prima filiera enologica integrata e circolare della Lombardia.
Private equity, crowdfunding e bond
Nel settore vinicolo il private equity è in fase di crescita, +63,5% nel 2020 nei capitali delle principali inprese vinicole: siamo al 4,6% del totale. “L’aggregazione prettamente finanziaria per me è di difficile realizzazione -risponde Callegari-. Ci sono aziende a mille chilometri di distanza ed è già difficile gestire in armonia Broni, Casteggio e Santa Maria della Versa. Le potenzialità ci sono, se è per un investimento a lungo termine ben vengano i private equity, se è per speculazione tipo il mercato Tech, allora no grazie”.
Piattaforme di crowdfunding possono dare un contributo anche se probabilmente il beneficio maggiore è quello della fidelizzazione di una clientela già rodata, visti anche il flusso di capitale quasi mai di rilievo. “Stiamo ragionando su un minibond, ovviamente con un rendimento ragionevole. L’idea è ancora embrionale e quindi per ora serve cautela, ma è una strada che vorremmo percorrere”.