Con un Cda fiume ieri in tarda serata Tim ha approvato i conti dei nove mesi che vedono ricavi da servizi in crescita dello 0,5% a 10,8 miliardi di euro, ma la svalutazione degli asset fiscali porta i conti della società guidata da Pietro Labriola (nella foto) in profondo rosso. Nello specifico Tim ha svalutato le imposte differite che aveva inserito a bilancio nel 2020, per quasi 2 miliardi. Il dettaglio vede un onere di -2.656 milioni per lo stralcio delle attività per imposte anticipate e un provento di 692 milioni di euro per lo storno dell’imposta sostitutiva che era stata stanziata per il riallineamento.

Il risultato netto dei nove mesi del 2022 attribuibile ai soci della controllante registra così una perdita di 2.728 milioni di euro (-10 milioni di euro nei primi nove del 2021). Senza le partite straordinarie i 9 mesi si chiudono comunque in perdita per 361 milioni di euro (nello stesso periodo del 2021 e prima dei profit warning era positivo per 310 milioni di euro). Sul fronte della redditività l’Ebitda è pari a 4,5 miliardi nei nove mesi, con “un trend in miglioramento nel terzo trimestre”, spiega la nota. L’Ebit è pari a 438 milioni di euro (940 milioni di euro nei primi nove mesi del 2021), il flusso di cassa della gestione operativa si attesta a -1.128 milioni di euro e l’indebitamento finanziario netto rettificato ammonta a 25.504 milioni di euro al 30 settembre 2022, in aumento di 3.317 milioni di euro rispetto al 31 dicembre 2021 (22.187 milioni di euro). La società sottolinea anche di aver raggiunto il 90% del target di contenimento dei costi per l’intero 2022 e una solida posizione di liquidità: incassati nel trimestre 1,3 miliardi dalla cessione della quota indiretta in Inwit e 2 miliardi del finanziamento garantito da Sace.

La novità più eclatante che emerge da conti riguarda l’ascesa di Tim Brasil nel consolidato. Nei 9 mesi un terzo del Mol di Telecom è stato realizzato dall’attivitò carioca. La controllata brasiliana ha registrato un Mol di 1,31 miliardi, in crescita di quasi il 35%.

 

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Rete unica

Il nodo più importante del Cda di ieri è stato il dossier della rete unica. Il tema non era all’ordine del giorno anche perchè i contatti con il governo non sono stati ancora avviati. Il destino del progetto di realizzare una rete unica con Open Fiber al momento è sospeso dopo la decisione di prolungare il negoziato con Cdp (socio di controllo dell’azienda guidata da Mario Rossetti) fino al 30 novembre. Labriola, dal canto suo,  è assolutamente convinto della bontà e della necessità dell’operazione. “Arrivare ad avere una rete unica in fibra è un elemento importante, strategico per il Paese”, ha detto il top manager qualche giorno fa durante l’assemblea di Confindustria Bari e Bat, spiegando che fare due reti in fibra ottica è “un dispendio inutile” in un momento in cui il Paese deve sviluppare tante altre piattaforme “e questo deve essere fatto in una logica di politica industriale, con una certa visione”.

Una convinzione, quella di Labriola, che si scontra però con le voci sempre più insistenti di un‘Opa a trazione Cassa; un progetto sponsorizzato dal governo Meloni  a cui è caro il disegno di una rete a controllo pubblico e aperto a tutti. si tratta del cosiddetto “Piano Minerva” messo a puto l’estate scorsa dal sottosegretario alla presidenza del consiglio con deleghe all’innovazione digitale, Alessio Butti. Il piano ruota attorno a Tim, di cui Cdp (a sua volta controllata da Tesoro) prenderebbe il controllo attraverso il lancio di una Offerta Pubblica di Acquisto, investendo molto meno di quanto sarebbe necessario per comprare la sola rete – per poi procedere alla vendita degli asset commerciali, inclusi i clienti, con cui ridurrebbe il debito, trasformando così il gruppo in un operatore “wholesale only” come vorrebbero il governo e le indicazioni di Bruxelles. Vivendi e Kkr potrebbero restare con una quota di minoranza. E anche Macquarie, attraverso il conferimento di Open Fiber, di cui ha il 40%. Da quanto si apprende il piano sarebbe stato aggiornato per renderlo più aderente all’evoluzione della situazione.  Un’apertura al dossier sarebbe arrivata nelle ultime ore anche da Vivendi, azionista francese di Tim con il 23,75%.

Il tempo stringe e la coperta è corta. La Cassa, infatti da sola avrebbe molte difficoltà a sostenere un’offerta pubblica. La Cdp ereditata da Dario Scannapieco aveva un patrimonio immenso, ma con poca cassa. Il free capital di Cdp nell’estate del 2018 era di 4,5 miliardi di euro, diventati 300 milioni a giugno 2021. L’attuale board ha gestito operazioni di exit da precedenti investimenti per circa 750 milioni e riportato il pay out dividend vicino al 50% rispetto all’80-100% della gestione precedente.  Il free capital è stato in parte ricostituito, ma resta intorno a 1 miliardo con alcune controllate che potrebbero presto richiedere iniezioni di capitale. Inoltre bisogna notare che il problema principale di rilevare Tim è legato all’enterprise value.  Un’operazione del genere comporterebbe un accollo di 26 miliardi di debiti e Cdp resta una società soggetta alla vigilanza di Bankitalia. Alcuni addetti ai lavori si sono addirittura spinti ad ipotizzare un aumento di capitale di Cdp ma in quel caso scatterebbe il problema delle fondazioni che attualmente detengono il 16%.

In una situazione coì fluida una delle poche certezze riguarda il fatto che se il governo confermasse il ruolo di Cdp come perno centrale di una rete tlc pubblica dovrà per forza trovare alleati, che in parte già ci sono: in Open Fiber c’è il fondo Macquaire; Vivendi si è detta disposta a dialogare con l’esecutivo italiano.

A tal proposito lo stesso Labriola, in conference call con gli analisti in tarda mattinata, ha detto che Cdp resta ancora “la migliore scelta in Italia per costruire la rete unica del Paese in termini di sinergie industriali. L’eventuale vendita a Cdp rimane l’opzione che dovrebbe massimizzare il valore”, aggiungendo che il mese in più di tempo viene usato per valutare tutti gli scenari possibili. “Sarebbe delittuoso non aver lavorato sui possibili scenari, il 30 novembre sapremo se si andrà a un’offerta vincolante, se ci sarà un’altra negoziazione o se la valorizzazione è quella giusta”. Il manager esclude che si sia trattato di un temporeggiare. “No, nessuno ci ha chiesto di rallentare, nessuno ha chiamato”, riferendosi al governo.  Il numero uno di Tim ha anche indicato la possibilità che i target finanziari del biennio 2023-2024 possano essere alzati dopo che il gruppo ha effettuato tre profit warning nel 2021.

Tim Enterprise

Il Consiglio di Amministrazione di Tim ha approvato l’avvio del processo di societarizzazione di Tim Enterprise, in linea con quanto comunicato al Capital Market Day dello scorso 7 luglio. Un annuncio che rappresenta un primo passo per poter vendere una quota di minoranza della società. Labriola ha già selezionato gli advisor: insieme a Goldman Sachs, Mediobanca e Vitale che lo assistono per la rete, il top manager ha scelto anche Banco Santander per fare un avalutazione della divisione. Allo stato attuale non c’è alcun processo formale per valorizzare Tim Enterprise; la vendita di una quota di minoranza rappresenta una delle opzioni sul tavolo da attivare nel caso in cui saltasse la rete unica.

“A luglio abbiamo comunicato che una opzione era la valorizzazione di una quota di minoranza di Tim Enterprise. È un asset importante della nostra strategia e non c’è nessuna intenzione di vendere tutta quanta l’azienda, non è una operazione finanziaria, noi cerchiamo un partner industriale”, ha detto l’ad. “Stiamo portando avanti tutto quanto detto a luglio. Tempi e modi è più opportuno gestirli in maniera più riservata. In una negoziazione più le carte sono coperte e più potere contrattuale hai”.

Sotto il profilo finanziario Tim Enterprise nei nove mesi ha confermato una crescita superiore a quella del mercato con un incremento dei ricavi totali e dei ricavi da servizi rispettivamente del 5,9% anno su anno e dell’8,8% anno su anno (+5,5% e +7,4% rispettivamente nel terzo trimestre).

Il fronte sindacale

Intanto si muovono le sigle sindacali. Ieri una lettera firmata dai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil – Maurizio Landini, Luigi Sbarra e Pier Paolo Bombardieri – e anche dai segretari generali delle Tlc Fabrizio Solari (Slc Cgil), Vito Vitale (Fistel Cisl) e Salvo Ugliarolo (Uilcom Uil) è stata indirizzata alla premier Giorgia Meloni e a Butti per “promuovere un urgente incontro”. Una missiva che lancia l’allarme sui rischi dello “spezzatino” societario per farne un “mero rivenditore di connettività all’ingrosso. Per quanto ci riguarda – è scritto nella nota  questa eventualità continua ad essere sbagliata sotto ogni profilo”.

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