Prossima tappa: Parigi. Entro quest’anno la ormai ex startup Unobravo, piattaforma di psicologia online, aprirà un nuovo ufficio dopo quello di Barcellona, in Spagna, e a Milano. Inoltre, proprio di recente, l’emittente ufficiale della conferenza annuale dell’American Psychiatric Association (APA) APA TV, ha presentato durante l’incontro di New York un documentario a tema innovazione nel campo della salute mentale dedicato proprio a Unobravo. Attraverso un alternarsi di interviste con alcuni dei principali portavoce dell’azienda, il docu-film ha raccontato il lavoro dietro le quinte di Unobravo, mettendone in luce l’alta missione sociale, le innovazioni introdotte nel settore della salute mentale, i traguardi raggiunti ad oggi e i progetti futuri. Unobravo è stata l’ unica organizzazione europea coinvolta nel progetto per il 2024.
Sono tutti tasselli che non fanno che confermare il veloce e brillante percorso di crescita della società fondata nel 2019 da Danila De Stefano, psicologa oltre che imprenditrice, che ha saputo intercettare quel crescente bisogno delle persone di dedicarsi e curare la propria salute mentale, soprattutto dopo la pandemia.
In cinque anni, con l’investimento di realtà quali Insight Partners, Northzone, H14, Cdp Venture Capital e SocialFare Seed, oltre che di alcuni angel investors, da un team di 30 collaboratori, Unobravo è arrivata a contare oggi su squadra di oltre 250 persone, un’équipe di 6mila psicologi e oltre 200mila pazienti, con la prospettiva di raggiungerne 300mila entro il 2024. La valutazione societaria si aggira sui 175 milioni di euro, come riportato da alcune fonti, e il fatturato a quanto risulta è in crescita. Tuttavia, sottolinea De Stefano in questa intervista a Dealflower, i dati economici non devono distrarre dalla value proposition: “L’obiettivo di Unobravo è portare avanti un’alta missione sociale, diffondendo una maggiore cultura della salute mentale e contribuendo ad abbattere lo stigma che è, purtroppo, ancora molto radicato”.
De Stefano, vi aspettavate questo successo?
La mia intenzione non era fare una startup di successo ma creare valore a livello sociale, quindi no, non me lo aspettavo. Anche da azienda molto cresciuta, non abbiamo mai avuto intenzione di mettere il business al di sopra dell’impatto sociale che possiamo avere. La nostra priorità assoluta è e sarà sempre migliorare la vita delle persone, normalizzando e rendendo più accessibile il ricorso al supporto psicologico. Per fare un esempio, ho impiegato oltre due anni per scegliere il primo investitore perché volevo solo quelli che fossero allineati con i nostri valori. La nostra fortuna è stata che dal 2021 siamo profittevoli quindi non abbiamo avuto fretta o necessità.
Come si affronta una sfida del genere?
Succede quando vai a intercettare la domanda e il tuo servizio ti scoppia in mano. La vere sfide ora guardano al come gestire questa realtà in crescita e come scalarla. Fondamentale è avere flessibilità nei processi. Un processo creato oggi potrebbe essere non più adatto domani. Per questo è importante mantenere una mentalità aperta e non legarsi troppo a come si stanno facendo le cose. Le situazioni e le esigenze possono evolversi ed è essenziale sapersi adattare al cambiamento per rimanere efficienti e rilevanti.
Dove sarete fra tre anni?
La nostra missione è diventare un punto di riferimento per la salute mentale nel nostro mercato di riferimento che è principalmente quello Europeo, che è frammentato, non ci sono ancora realtà grandi, come ad esempio BetterHelp negli Stati Uniti, e quindi offre spazi interessanti. Noi crediamo di poterlo fare. Attenzione però, non ci interessa mettere “bandierine” in giro, se ci internazionalizziamo è per avere una presenza rilevante.
Nel 2022 siete sbarcati in Spagna, quale è il prossimo passo?
Abbiamo un ufficio a Milano e uno a Barcellona. Stiamo per aprire il terzo ufficio a Parigi. L’internazionalizzazione è una delle principali direttrici su cui ci stiamo muovendo in questo momento e vogliamo continuare a espanderci in nuovi Paesi. L’obiettivo è quello di trasformare Unobravo in un servizio psicologico multilingue e multiculturale. Ovviamente l’Italia resterà sempre il Paese per noi più importante: parallelamente all’esplorare nuovi mercati, vogliamo, infatti, continuare a crescere anche in Italia e consolidarci sempre di più come leader della psicologia online.
Cosa significa internazionalizzare per voi?
Il team clinico è da sempre il cuore di Unobravo. Nel processo di internazionalizzazione ci stiamo concentrando molto sui professionisti, sia in termini di standard clinici sia di reputazione, e sulla creazione di una community. Anche internamente cerchiamo competenze che arrivino dall’estero per creare un leadership team che abbia esperienze e provenienze diverse, ad esempio uno degli ultimi ingressi è il nostro Chief product officer che viene dal Regno Unito.
In quali altri modi puntate a crescere?
Vogliamo ampliare il segmento b2b, offrendo ancora più servizi a tutte quelle aziende che decidono di coprire parte dei costi a carico del dipendente per la terapia, organizzando anche workshop e focus group e fornendo consulenza. Ci proponiamo di essere un supporto a tutto tondo per le imprese e un aiuto quando necessario. Per questo, ci dedichiamo con impegno a offrire a ciascun partner soluzioni personalizzate e capaci di rispondere alle esigenze specifiche dei loro dipendenti e collaboratori. Ad oggi collaborano già con noi oltre 120 aziende.
Cosa pensi dell’ecosistema venture capital italiano?
Nelle fasi iniziali di vita della startup soggetti disposti a investire ci sono, non quanto in altri paesi ma ci sono. Quello che ancora manca è una cultura che sia più simile a quella del venture capital internazionale, quindi maggiormente founder friendly, che non limiti eccessivamente le sue scelte con clausole stringenti o vessatorie, che proponga valutazioni troppo basse o contratti troppo aggressivi in generale. Conformarsi agli standard internazionali potrebbe essere una strategia efficace per trattenere gli interlocutori stranieri che si affacciano al nostro mercato, che spesso rifiutano di investire perché trovano governance già troppo complesse, founders demotivati e rapporti societari già troppo intricati. Bisogna ricordare anche che founders motivati e con interessi allineati sono fondamentali per la buona riuscita del business. Naturalmente servirebbero anche più risorse in circolazione, ma credo che molto stia nel rapporto tra i venture capital e i founder, a un sistema che lasci a questi ultimi la possibilità di proseguire ciò che hanno iniziato.
E nella fase dove vi trovate adesso, cioè di scaleup?
Qui c’è il classico problema se viene prima l’uovo o la gallina. Mi spiego: ci sono alcuni fondi per round di series B o altre ma hanno un problema di domanda sul mercato perché non ci sono abbastanza realtà italiane in grado di raggiungere quello stage. Ma allo stesso tempo senza fondi di questo genere, le startup in crescita non trovano risorse in Italia e sono costrette ad andare a cercarli all’estero. Spesso i fondi esteri richiedono però che vi sia già espansione internazionale, cosa che ha spesso costretto scaleup a farlo troppo presto. Il dilemma è allora questo: creo un fondo e spero che un giorno ci saranno più aziende dove investire o non lo creo perché non c’è domanda? È un circolo vizioso e un problema non facile da risolvere. Per questa ragione le startup che crescono devono internazionalizzare, per attirare capitali stranieri che non ci sono in Italia. Non sempre lo si fa con consapevolezza e risorse giuste.
Il settore pubblico che ruolo potrebbe avere?
Un esempio interessante è quello della Francia, ma il settore dovrebbe prima crescere ulteriormente. Sicuramente la presenza di Cdp Venture capital, soprattutto nella fase pre seed, è stata fondamentale e ha fornito benzina alla macchina di molte realtà.