È un mercato complicato, quello degli unlikely to pay, specialmente quelli che si stanno deteriorando che fanno capo alle imprese. Perché se da un lato c’è la necessità di gestire questi crediti – che per la prima volta lo scorso anno hanno superato in volumi quelli dei non performing loans – in maniera precisa ed efficiente, dall’altro la complessità dei singoli casi richiede un approccio chirurgico. Non è un caso che sul mercato si vendano più single name che pacchetti e non lo è nemmeno il fatto che i pochi esempi di maggior successo riguardino operazioni specifiche e aziende con caratteristiche particolari.
Tuttavia, il tempo a disposizione è poco. E come è emerso durante l’incontro organizzato ieri 17 febbraio dal nostro giornale sul tema, se non ci sarà uno “tsunami” – vocabolo che abbiamo usato in maniera provocatoria – i player del settore si aspettano sicuramente una tempesta perfetta. Il perché facile capirlo: oltre 2 milioni di imprese in questi anni di pandemia hanno ottenuto crediti per 250 miliardi circa coperti da garanzie pubbliche, alle volte anche sovraindebitandosi, e queste risorse prima o poi dovranno restituirle a fronte di una crescita più bassa ed elementi come il caro energia, la crisi della supply chain e soprattutto l’inflazione che complicano lo scenario. Senza contare poi i 300 miliardi di euro di stage 2 che potrebbero pesare non poco sui bilanci delle banche.
Non c’è dunque tempo da perdere. Il mercato deve essere pronto. Anche perché la posta in gioco sono le tante realtà imprenditoriali, spesso di medie dimensioni, che potrebbero non sopravvivere alla crisi scatenata dalla pandemia.
Come conciliare dunque la necessità di una gestione mirata e puntuale con un mercato in crescita?
Esistono più risposte a questa domanda, ne identifico due. La prima è cercare di industrializzare il più possibile il processo di presa in carico, diagnostica e gestione degli utp da parte degli acquirenti che siano servicer puri o asset manager a tutto tondo. Se non industrializzare, creare cluster di crediti legati a determinate imprese che hanno problematiche accomunabili. È chiaro che per fare questo servono tanti investimenti, soprattutto in tecnologia, e competenze ultra specifiche che uniscano il legal, il finance e conoscenze di settore. Trovarle è una delle sfide di servicer, fondi e consulenti.
La seconda risposta sta nell’approccio di filiera. Dalla banca, che vende o da in gestione un unlikely to pay, al servicer che l’acquista fino al fondo di restructuring che interviene dando nuova finanza e al consulente d’impresa che affianca l’azienda finita in concordato e l’aiuta a uscirne. Una gestione efficiente degli utp richiede una collaborazione tra questi soggetti che devono agire ognuno con la sua specificità e competenza. Ciò implica però una definizione dei ruoli, soprattutto quello delle banche e dei servicer. Le prime sono praticamente costrette dal regolatore a liberarsi dei crediti problematici anche nei casi in cui sarebbero in grado di estrarne il valore. I secondi, in particolare, stanno vivendo un grande cambiamento del loro modello di business. Il servicer puro recuperatore di crediti non basta più. serve un approccio da asset manager, quasi da private equity, per avere da un lato nuova finanza da iniettare nelle imprese in difficoltà e dall’altro quella capacità di cui si parlava di gestire il credito in modo efficiente. È chiaro però che vanno definiti bene i ruoli se si vuole dare vita a una filiera che sia funzionale.
Le sfide, dunque, sono molte. Ciò che è certo è che il mercato è in divenire. Ci sarà spazio per player (fondi o asset manager) specializzati, focalizzati ed esperti in determinati settori (il fondo sugli utp lanciato da Kryalos conferma questo trend) e soprattutto si svilupperà ancora di più il secondario, alimentando il flusso. Sono due aspetti positivi che indicano la maturazione del mercato, il quale però non deve perdere di vista la priorità: salvare le imprese.